RESUMEN
El artículo analiza el papel desempeñado por la Corte Costituzionale italiana desde su configuración constitucional en los inicios de la república y su progresiva evolución, tanto en lo relativo a sus relaciones con el Parlamento o las regiones, como en relación con los derechos sociales y sus vínculos económico-financieros.
Palabras clave: Corte constitucional; política; jurisprudencia; democracia.
ABSTRACT
The article analyses the role played by the Italian Constitutional Court since its constitutional configuration at the beginning of the republic and its progressive evolution, both in relation to its relations with Parliament or the Regions, and in relation to the social rights and their economic-financial ties.
Keywords: Constitutional Court; politics; jurisprudence; democracy.
SUMARIO
I costituenti hanno introdotto nella Seconda parte della Costituzione tre fondamentali novità finalizzate ad affermare il principio organizzativo della separazione dei poteri: il Consiglio superiore della magistratura (che sottrae al Ministro della giustizia importanti poteri al fine di garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario), le Regioni (che danno vita a un cheek and balance di tipo verticale) e la Corte costituzionale, la cui prima sentenza risale al 1956. La dottrina, sin dai primi commenti alla Costituzione, comprese la rilevanza e le potenzialità di questo organo, che poteva favorire la legalità sostanziale del sistema normativo (sia depurandolo dalle possibili antinomie, sia assolvendo a una funzione di interpretazione autentica del significato delle disposizioni costituzionali), assicurare la tutela dei diritti fondamentali, garantire l’equilibrio istituzionale tra i poteri dello Stato e tra questo e gli enti politici decentrati ( Ambrosini, G. (1953). La Corte Costituzionale. Palermo.Ambrosini, 1953; Cappelletti, M. (1955). La giurisdizione costituzionale delle libertà. Milano: Giuffrè.Cappeletti, 1955; Battaglini, M. (1957). Contributi alla storia del controllo di costituzionalità delle leggi. Milano: Giuffrè.Battaglini, 1957; Baschieri, G., Bianchi d’Espinosa, L. y Gianattasio, C. (1949). La Costituzione italiana. Commento analitico. Firenze: Noccioli.Baschieri et al., 1949; Calamandrei, P. y Levi, A. (1950). Commentario sistematico alla Costituzione italiana. Firenze: Barbera.Calamandrei y Levi, 1950; D’Orazio, G. (1981). La genesi della Corte costituzionale. Milano: Edizioni di Comunità.D’Orazio, 1981; Bonini, F. (1996). Storia della Corte costituzionale. Firenze: La Nuova Italia.Bonini, 1996; De Siervo, U. (2008). L’istituzione della Corte costituzionale in Italia: dall’Assemblea costituente ai primi anni di attività della Corte, in La giustizia costituzionale tra memoria e prospettive. A cinquant’anni dalla pubblicazione della prima sentenza della Corte costituzionale. Torino: Giappichelli.De Siervo, 2008). Se è indubbio che questa istituzione seppe acquisire una salda legittimazione sociale e godere di una piena autorevolezza all’interno della forma di governo italiana, non va tuttavia dimenticato che ciò fu il risultato soprattutto della qualità complessiva della sua giurisprudenza, della capacità di assecondare nel tempo l’evoluzione della società e di dipanare con equilibrio i principali nodi istituzionali. Tale esito non era affatto era scontato, dal momento che dal dibattito in Assemblea costituente non emerse una visione omogenea e condivisa del ruolo, delle attribuzioni e dei criteri di composizione della Corte costituzionale: il disegno originario si presentava, come autorevolmente affermato, con i “connotati dell’incertezza e dell’ambiguità” ( Modugno, F. (1985). La Corte costituzionale italiana oggi, in Scritti sulla Giustizia costituzionale in onore di Vezio Crisafulli. Padova: CEDAM.Modugno, 1985: 534).
La soluzione che emerse dal testo della Costituzione fu condizionata – più che dal peso di posizioni di principio contrarie a prevedere forme di controllo delle leggi da parte dei giudici - da obiezioni che ponevano in guardia circa l’opportunità di attribuire a una organo di natura giurisdizionale, non rappresentativo la competenza di instaurare —come ebbe a dire Francesco Carnelutti— una sorta di “processo al legislatore”, depotenziando la centralità del Parlamento, espressione diretta ai sensi dell’art. 1 Cost. della sovranità popolare (Carnelutti, 1959: 1; D’Orazio, G. (1981). La genesi della Corte costituzionale. Milano: Edizioni di Comunità.D’Orazio, 1981). Né va trascurato che la maggioranza favorevole all’istituzione della Corte costituzionale se, per un verso, coagulò un consenso attorno ad alcuni criteri di carattere generale (la rigidità costituzionale, l’introduzione di un procedimento ad hoc finalizzato verificare il rispetto delle norme costituzionali, l’affidamento di tale compito a un apposito organo di rilievo costituzionale), per un altro verso si differenziò al suo interno circa il modo organizzare siffatto tipo di controllo ( Pizzorusso, A. (1981). Art. 134. Commentario della Costituzione. Bologna: Zanichelli.Pizzorusso, 1981: 64).
Una prima posizione —sostenuta in particolare da Calamandrei— proponeva un ibrido tra l’esperienza nordamericana di judicial review e il controllo astratto di derivazione austriaca: la funzione di giudice costituzionale avrebbe dovuto essere ripartita tra i giudici comuni (che risolvevano il contrasto tra norme ordinarie e Costituzione nel corso di un processo, con effetti inter partes) e la Corte costituzionale (che decideva sulla base di un ricorso presentato, entro tre anni dall’entrata in vigore della legge, da un Procuratore generale su richiesta di parlamentari o dei cittadini al determinarsi di particolare presupposti). Le decisioni del giudice costituzionale avrebbero vincolato il Parlamento a modificare gli eventuali vizi di incostituzionalità.
Un’altra —caldeggiata in particolare da Leone— prevedeva un ricorso accentrato e successivo nei confronti non solo delle leggi, ma anche dei regolamenti e degli atti amministrativi, che poteva essere presentato da un ampio ventaglio di organi (Presidente della Repubblica, Governo, Presidente della Regione e del Consiglio regionale, un organo del potere giudiziario, cittadini che ne abbiano interesse); inoltre, la dichiarazione di incostituzionalità aveva effetti retroattivi, salva la possibilità per la Corte costituzionale di dettare norme transitorie valide nei sei mesi successivi alla pubblicazione della sentenza.
A sua volta il costituente Einaudi ipotizzò di distinguere il controllo di legittimità delle norme dai conflitti di competenza: il primo avrebbe dovuto essere di competenza dei giudici comuni, i secondi erano riservati alla Corte di cassazione. Invece, le competenze di natura prettamente politica (come il giudizio sui reati del Presidente della Repubblica e dei ministri) sarebbero spettate al Parlamento in seduta comune. Infine, Mortati suggerì di valorizzare il ruolo della Corte costituzionale come “giudice dei diritti”, ipotizzando una sorta di recurso de amparo constitucional).
Su questi presupposti, fu assai difficile conseguire, al termine dei lavori costituenti, una sintesi tra le diverse, eterogenee proposte, che riuscirono a coagularsi soltanto attorno all’idea che la Corte costituzionale dovesse qualificarsi come organo di garanzia della Costituzione, non antagonistico rispetto alla centralità del Parlamento, ma in grado di affiancarlo fornendo un’interpretazione delle leggi secundum Constitutionem (Fioravanti, 1998: 107; Repetto, 2018: 730).
Inoltre, anche se risultò evidente l’influenza del prototipo introdotto dalla Costituzione austriaca del 1920 ( Calamandrei, P. (1950). L’illegittimità costituzionale delle legge nel processo civile. Padova: CEDAM. Calamandrei, 1950; Rolla, G. (2017). L’evoluzione dei sistemi accentrati di giustizia costituzionale. Note di diritto comparato. En S. Bagni, G. A. Figueroa Mejía, G. Pavani (coords.). La ciencia del derecho constitucional comparado, II (pp. 839-910). México: Tirant lo Blanc.Rolla, 2017: 839), il sistema effettivo di giustizia costituzionale non si limitò a una mera applicazione di un modello storico, ma tenne conto di diversi elementi.
Innanzitutto della specificità dell’interpretazione delle disposizioni delle Costituzioni democratiche e sociali, dal momento che in esse sono numerose le norme a contenuto giuridico indeterminato (il cui contenuto normativo richiede la sussunzione di elementi propri di discipline non giuridiche), le disposizioni polisenso (la cui interpretazione è aperta all’evoluzione normativa), le disposizioni programmatiche (che orientano la successiva attività normativa dei pubblici poteri), le disposizioni “pattizie” (frutto della mediazione tra tendenze culturali diverse, codificate come patto tra le componenti principali di una società pluralistica), nonché quelle tese a favorire l’elasticità dell’ordinamento costituzione consentendogli di adattarsi al variare della società).
Di conseguenza, maturò la consapevolezza che l’interpretazione costituzionale si dovesse differenziare da quella norme legislative e che questo compito potesse essere assolto solo da un giudice “particolare”, sensibile all’evoluzione della vita sociale, politica ed economica del paese, attento agli effetti che le sue decisioni possono produrre nel contesto sociale e istituzionale. In altri termini, la Corte costituzionale doveva qualificarsi come un giudice sui generis: un organo indipendente dalla politica, ma non estraneo al circuito politico e istituzionale, in grado di attuare ma anche implementare la Costituzione, facendo di essa un living tree.
Nel medesimo tempo —e in apparente contraddizione con quanto detto sopra— la legislazione attuativa del titolo VI della Costituzione ha favorito, grazie all’introduzione della “questione incidentale di costituzionalità”, l’instaurarsi di un continuum tra l’attività interpretativa del giudice costituzionale e quella dei giudici comuni[1], che ha contribuito ad allontanare progressivamente il sistema italiano di giustizia costituzionale dal suo prototipo di riferimento dando vita a un sistema essenzialmente ibrido: infatti la giurisdizione costituzionale attivata da una “questione” sollevata da un giudice nel corso di un processo fa sì che il giudizio costituzionale, pur essendo per natura oggettivo —finalizzato, cioè, a valutare la coerenza di una norma con le disposizioni costituzionali— non può trascurare che gli esiti dello stesso debbono essere “rilevanti” sia per il processo che ha occasionato la questione di costituzionalità, sia per altri procedimenti giurisdizionali (in corso o futuri) ( Pegoraro, P. (1998). Lineamenti di giustizia costituzionale comparata. Torino: Giappichelli. Pegoraro, 1998: 27; Aragón, 1979: 174).
Di conseguenza, a mano a mano che il giudizio incidentale di costituzionalità ha incrementato
la sua rilevanza sotto il profilo numerico e della varietà delle problematiche affrontate,
il giudizio di costituzionalità ha dovuto affinare i meccanismi procedurali per evitare
l’insorgere di conflitti interpretativi tra le diverse giurisdizioni. A tale risultato
si è pervenuti progressivamente sulla base di successive approssimazioni, attraverso
un “dialogo” continuo tra le giurisdizioni ( Rolla, G. (2010). L’interpretazione adeguatrice tra Tribunale costituzionale e giudici
comuni in Spagna. Estudios constitucionales, 8 (2), 601-632. Disponible en:
In definitiva, si può ritenere che il giudice costituzionale abbia assunto nel tempo le sembianze di un “Giano” i cui due volti gli consentono di guardare sia il passato (il testo della Costituzione) che il futuro (la sua evoluzione e trasformazione nel tempo), sia il contesto politico che i rapporti con la giurisdizione comune.
La fase di avvio dell’esperienza di giustizia costituzionale ebbe una duplice, importante caratterizzazione: l’una di natura processuale inerente alle tecniche processuali, l’altra di natura sostanziale relativa al contenuto delle sue prime decisioni.
La prima è riconducibile alla circostanza che la Corte costituzionale italiana, specie se confrontata con altre giurisdizioni costituzionali, può esercitare un numero limitato di competenze, in conseguenza di una precisa scelta dei costituenti che vollero mettere la sua azione al riparo da un’eccessiva esposizione “politica” riducendo le possibilità di “conflitto” con le istituzioni rappresentative. Inoltre, nei primi venti anni di funzionamento, il canale di accesso alla Corte fu rappresentato dall’ordine giudiziario: si consideri che il contenzioso tra lo Stato e le Regioni decollò solo in seguito all’attivazione delle Regioni ordinarie nel 1971, che la prima decisione in materia di conflitti tra poteri dello Stato si ebbe con la sentenza n. 13 del 1975, così come a tale periodo risalgono anche le prime decisioni in tema di ammissibilità del referendum abrogativo.
Di conseguenza, nei primi anni di attività le “chiavi” per aprire la “porta” di accesso al giudizio costituzionale sono state nelle mani dei giudici ordinari, dalla cui discrezionalità dipendeva la scelta se sollevare nel corso di un processo una questione di legittimità costituzionale, con il rischio che tale fondamentale organo di garanzia della legalità costituzionale finisse per svolgere un ruolo marginale nella dinamica istituzionale della Repubblica.
Va ascritto, quindi, a merito della Corte costituzionale il risultato di aver individuato particolari tecniche decisorie, soprattutto di natura processuale con l’obiettivo di favorire un ampio accesso al giudizio di legittimità costituzionale ( Luciani, M. (1984). Le decisioni processuali e la logica del giudizio costituzionale incidentale. Padova: CEDAM.Luciani, 1984). Esse si sono orientate essenzialmente in tre direzioni.
Innanzitutto, la Corte ha reso giustiziabili tutte le disposizioni della Costituzione, segnando un punto di rottura rispetto a qualificati orientamenti della dottrina e della giurisprudenza —specie della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato— i quali avevano graduato l’efficacia delle disposizioni costituzionali, introducendo una suddivisione di massima tra norme immediatamente applicabili, norme non suscettibili di immediata applicazione in quanto rinviano al legislatore una più concreta determinazione, disposizioni generali che contengono mere direttive nei confronti del legislatore[4]. In tal modo, ha definitivamente depotenziato ai fini del giudizio di legittimità costituzionale l’utilità della distinzione tra norme precettive e programmatiche[5].
Inoltre, ha ulteriormente ampliato il parametro del proprio giudizio estendendolo
ai principi che “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la
Costituzione italiana”: cioè a norme non scritte, ricavabili da un’analisi sistematica
del testo costituzionale, che si pongono “al di sopra” delle singole disposizioni
e rappresentano per esse un limite sostanziale sindacabile dal giudice costituzionale Si veda, ad esempio, la sentenza n. 1146 del 1988 (Casavola, 1955: 1555; Modugno,
2000: 95; Razzano, 2002; Ventura y Morelli, 2015).
In secondo luogo, il giudice costituzionale ha riconosciuto la propria competenza a “giudicare sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge anche se anteriori alla entrata in vigore della Costituzione”. In tal modo il controllo di costituzionalità è stato esteso a tutte le norme di rango legislativo vigenti, consentendo di annullare molte disposizioni emanate durante il periodo della dittatura e contrarie alla nuova Costituzione ( Mortati, C. (1972). Competenza esclusiva della Corte costituzionale a dichiarare l’invalidità delle leggi anteriori alla Costituzione. Milano: Giuffrè.Mortati, 1972: 821; Rolla, G. (2018). L’organizzazione costituzionale dello Stato. Milano: Giuffrè.Rolla, 2018: 469).
Siffatto orientamento ha differenziato l’ordinamento italiano da altri ordinamenti europei: si consideri che nella Repubblica federale di Germania le leggi anteriori alla prima riunione del Bundestag restavano in vigore e la valutazione della compatibilità con la Legge fondamentale spettava al giudice comune; mentre, secondo il terzo comma della Disposizione Derogatoria della Costituzione spagnola il contrasto tra Costituzione e legge anteriore può essere risolto dal giudice comune in sede di giudizio sull’applicabilità di questa ultima. In entrambi i casi, quindi, le decisioni avevano soltanto effetti inter partes e non erga omnes come nel caso delle sentenze della Corte italiana.
In terzo luogo, il giudice costituzionale si è premurato di evitare che il meccanismo
principale di accesso al giudice costituzionale (la questione di costituzionalità)
si trasformasse in un indebito ostacolo al pieno dispiegarsi del controllo di costituzionalità.
A tal fine, ha fornito un’interpretazione estensiva della nozione di giudice a quo: ad esempio, nella sentenza n. 84 del 1966, ha precisato che l’espressione “giudizio”
è comprensiva di tutti i vari procedimenti di carattere decisorio svolti dal titolare
di un ufficio giurisdizionale, mentre possono rientrare nella nozione di “autorità
giurisdizionale” anche gli organi estranei all’ordine giudiziario che siano investiti
di funzioni giudicanti e si trovino in posizione super partes Sulla nozione di giudice a quo: Patroni, 2012; Oddi, 2007: 28; Pinelli, C. (2000). Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale e nozione di giudice a quo. Torino: Giappichelli.
Il contributo innovativo apportato nell’iniziale esperienza di giustizia costituzionale attiene soprattutto alla qualità delle sue prime decisioni. Infatti, nel periodo che va dal 1956 alla metà degli anni ’70, il giudice costituzionale ha sopperito ai ritardi del Parlamento nell’abrogare la legislazione anteriore alla nascita della Repubblica, assumendo un ruolo di primo piano nella democratizzazione dell’ordinamento giuridico italiano e annullando molte disposizioni illiberali approvate nel corso della Monarchia e del Fascismo. La sua azione si è rivelata, in questa fase, coerente con le intenzioni originarie dei Costituenti, favorevoli ad affidare a questo organo il compito di allineare il sistema legale alle nuove disposizioni costituzionali, evitando conflitti con il legislatore repubblicano.
Rilevante è stato, ad esempio, l’impatto (anche sociale) delle sue sentenze a tutela della libertà di manifestazione del pensiero, che viene depurata delle più odiose eredità del fascismo, quali le molte autorizzazioni di polizia (sentenza n. 1 del 1956); della eguaglianza tra i sessi, dichiarando incostituzionale una disposizione del 1919 che escludeva le donne da una vasta categoria di impieghi pubblici (sentenza n. 33 del 1960); della libertà di riunione, per cui non vi è più l’obbligo di preavviso per le riunioni in luogo aperto al pubblico (sentenza n. 90 del 1970); della libertà di comunicazione, nel senso che le intercettazioni telefoniche debbono avvenire sempre sotto il controllo del giudice, che le deve adeguatamente motivare (sentenza n. 100 del 1968 e n. 34 del 1973).
Così come è stata apprezzata la sua giurisprudenza in tema di diritto di sciopero, in cui ha precisato che le finalità di tale istituto non riguardano soltanto il rapporto di lavoro, ma si estendono anche a qualsiasi interesse dei lavoratori (sentenze n. 123 del 1962 e n. 141 del 1967); ovvero quella relativa al diritto alla salute, riconoscendo che la gravidanza può essere interrotta qualora la gestazione implichi un danno o pericolo grave per la salute della madre (sentenza n. 27 del 1975); o alla legittimità della carcerazione preventiva, i cui limiti massimi debbono essere tali da non vanificare il principio di presunzione di non colpevolezza (sentenza n. 64 del 1970).
Grazie alla sua giurisprudenza in tema di diritti, il giudice costituzionale ha esercitato un’importante funzione di educazione civica —contribuendo a permeare la società dei valori costituzionali— e fu immediatamente percepito come il principale difensore della Costituzione, dal momento che il Parlamento nelle prime legislature si mostrò molto timido nell’abrogare la legislazione prerepubblicana. In tale azione risiedono i motivi dell’autorevolezza acquisita da quest’organo all’interno della forma di governo italiana.
E’ impossibile non riconoscere il suo ruolo fondamentale nel disboscare dall’ordinamento italiano la legislazione autoritaria risalente al periodo fascista, anche se non deve trascurare che su alcuni temi sensibili la Corte costituzionale ha evidenziato una certa difficolta ad entrare in sintonia con un nuova sensibilità che iniziava a penetrare all’interno della società italiana. Ad esempio, non colse con l’auspicata celerità alcune modificazioni del costume relative ai rapporti tra i coniugi all’interno della famiglia o inerenti alla sfera sessuale degli individui.
Rispetto alla normativa penale che puniva l’adulterio della sola moglie la Corte,
in un primo momento, aveva giustificato tale differenziazione di trattamento ritenendo
il principio costituzionale dell’unità familiare preminente rispetto all’uguaglianza
giuridica e morale dei coniugi sulla base di un pregiudizio sociale per cui l’infedeltà
della moglie era considerata socialmente più grave di quella del marito Si veda la sentenza n. 64 del 1961. Si veda la sentenza n. 9 del 1965.
Nel periodo successivo alla seconda metà degli anni ’70 si modifica profondamente il contesto istituzionale in cui il giudice costituzionale opera, imponendo alla Corte una continua rilegittimazione nei confronti della società: come è stato autorevolmente sottolineato, pur avendo prodotto un grande acquis giurisprudenziale, non poteva “vivere di rendita” (Elia, 2009: 130).Diversi fattori hanno contribuito a definire i caratteri di questa nuova fase.
Innanzitutto, il giudice costituzionale ha potuto esercitare appieno l’intero ventaglio
delle attribuzioni attribuitegli dalla Costituzione (con l’eccezione della messa in
stato d’accusa del Presidente della Repubblica). Le sue decisioni non si limitano
alle sole questioni di costituzionalità, ma si estendono alla risoluzione di un ampio
contenzioso tra lo Stato e le Regioni, ai conflitti tra i poteri dello Stato e ai
giudizi di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo. Queste competenze
incrinano il precedente monopolio del rapporto Corte - giudici comuni e impongono
al giudice costituzionale di affiancare, a un rapporto collaborativo con i giudici
comuni Vedi supra, paragrafo 1.
In secondo luogo, l’oggetto delle sue decisioni non si limitava alla legislazione anteriore alla Costituzione, ma comprendeva con (frequenza sempre maggiore) leggi da poco approvate dal Parlamento repubblicano o dai Consigli regionali: di conseguenza, non si trattava più di depurare il diritto vigente dalle norme contrarie alla Costituzione, bensì di valutare la conformità a Costituzione di scelte politiche prese dalle assemblee rappresentative. In diversi casi il confine tra discrezionalità e illegittimità si è rivelato incerto o assai poroso; inoltre, non va dimenticato che le moderne società pluralistiche sono percorse da interessi non omogenei, da tensioni non sempre componibili, per cui la decisione politica deve con frequenza maggiore bilanciare le situazioni soggettive suscettibili di entrare in conflitto oppure contemperare l’esercizio di un diritto con la salvaguardia di un principio o di un valore costituzionale. Inoltre, non sempre l’equilibrio tra aspettative contrastanti perseguito dal legislatore (definitional balancing) trova conferma nella valutazione del giudice allorché decide sulle singole fattispecie (ad hoc balancing).
In questi casi il contenzioso costituzionale si conclude con la ricerca di una mediazione
equilibrata tra i diversi interessi sottesi alla questione di costituzionalità e la
Corte deve valutare le scelte del legislatore con riferimento ai principi di ragionevolezza
o di proporzionalità ( Bin, R. (1992). Diritti e argomenti: il bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza costituzionale.
Milano: Giuffrè, Bin, 1992). Nel primo caso ritiene incostituzionali le scelte legislative che regolano situazioni
differenti secondo criteri arbitrari, determinando un’ irrazionale contraddizione
tra la finalità della legge e il contenuto delle norme Sul principio di ragionevolezza, Moscarini, A. (1996). Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge. Torino: Giappichelli.
Scaccia, G. (2000). Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale. Milano: Giuffrè.
Modugno, F. (2007). La ragionevolezza nella giustizia costituzionale. Napoli: Editoriale Scientifica.
Morrone, A. (2000). Il custode della ragionevolezza. Milano: Giuffrè.
D’Andrea, L. (2005). Ragionevolezza e legittimazione del sistema. Milano: Giuffrè.
Ad esempio, in materia di diritto alla salute, il giudice costituzionale ha precisato
che il diritto a ottenere determinati trattamenti sanitari è condizionato dall’attuazione
che il legislatore ordinario ne dà attraverso il bilanciamento dell’interesse tutelato
con gli “altri interessi costituzionalmente protetti, tenuto conto dei limiti oggettivi
che lo stesso legislatore incontra nella sua opera di attuazione in relazione alle
risorse organizzative e finanziarie di cui dispone al momento” Ad esempio la sentenza n. 455 del 1990.
L’esigenza di valutare le norme non solo sotto il profilo della mera legittimità, ma anche con riferimento alla ragionevolezza della scelta legislativa e alla sua capacità di contemperare in modo equilibrato interessi e diritti contrastanti ha imposto al giudice costituzionale di graduare il proprio atteggiamento a seconda delle situazioni concrete e di fissare, di volta in volta, la linea di demarcazione tra discrezionalità politica e illegittimità costituzionale. Nello svolgimento di questo compito la Corte, non trovando un adeguato supporto nella legislazione che regola il processo costituzionale, ha dovuto sopperire alla limitatezza degli strumenti decisionali messi a disposizione dal legislatore con una giurisprudenza “creativa” che ha dato vita a una varietà di tipi di sentenze di natura processuale.
Ad esempio, al fine di mettere un certo lasso di tempo a disposizione del Parlamento
(per approvare una nuova disciplina della materia) o delle pubbliche amministrazioni
(per meglio fronteggiare organizzativamente gli effetti di una decisione di illegittimità
costituzionale) ha dato vita alle pronunce di “incostituzionalità differita”: in questi
casi, il giudice costituzionale, bilanciando diverse esigenze di rilievo costituzionale,
individua il dies a quo degli effetti di annullamento Vedi la sentenza n. 119 del 1981. Ad esempio, la sentenza n. 50 del 1989. In dottrina, Ruotolo, 2010; Pinardi, 1993;
D’Amico, 1993; Politi, F. (1997). Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale: contributo
ad una teoria dell’invalidità costituzionale delle leggi. Padova: CEDAM.
Sono frequenti anche le situazioni in cui la Corte, per assicurare la tutela effettiva
di diritti sociali o per evitare discriminazioni contrarie al principio di eguaglianza,
decide di sostituirsi al legislatore ricorrendo alle sentenze c.d. “additive”, con
le quali la dichiarazione di incostituzionalità colpisce una disposizione “nella parte
in cui non prevede” o “non estende ad altri soggetti una determinata prestazione” Ciò è avvenuto con frequenza in materia di pubblico impiego, di diritto del lavoro
e di previdenza sociale, di assistenza e di sanità pubblica.
In altri casi, il giudice costituzionale ha preferito ricercare (ove possibile) un
“dialogo” con il Parlamento, tendendo presente che il controllo di legittimità della
Corte costituzionale deve escludere “ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato
sull’uso del potere discrezionale del Parlamento” Così l’art.28 della legge n. 87 del 1953. Sui rapporti con il legislatore, Passaglia, P. (2011). Le Juge constitutionnel et le Législateur. L’expérience italienne. Saarbruken: Editions Universitaires européennes.
Aja, E. (1998). Las tensiones entre el Tribunal Constitucional y el legislador en la Europa actual.
Barcelona: Ariel.
Tuttavia, se l’obiettivo perseguito dal giudice costituzionale appare chiaro, ciononostante il suo atteggiamento nei confronti del legislatore non sempre è univoco, risultando influenzato sia da fattori “interni” al processo (come l’oggetto della questione di costituzionalità, l’esistenza di precedenti o la consapevolezza dell’opportunità di introdurre un revirement giurisprudenziale), che da altri “esterni” (ad esempio, il contesto politico-istituzionale in cui ha luogo la decisione, la volontà del Parlamento di dare un legislative sequel agli “indirizzi” presenti nelle rationes decidendi della Corte costituzionale, l’ attitudine di quest’ultima a esercitare un accorto self-restraint nel valutare situazioni in cui il margine di distinzione tra legittimità e discrezionalità politica risulta assai stretto).
Le posizioni assunte dalla giurisprudenza costituzionale nei confronti del legislatore sono graduabili secondo una scala che va da un elevato grado di deferenza a un atteggiamento propositivo, in cui la Corte si sostituisce, in virtù di specifiche tecniche decisionali, alla latitanza che il Parlamento dimostra dinanzi alla necessità costituzionale di disciplinare una determinata materia.
In diverse situazioni, il giudice costituzionale ha sostanzialmente allineato la sua
giurisprudenza alle scelte del legislatore nazionale: ciò è avvenuto, ad esempio,
dinanzi ai processi di centralizzazione indotti dalle crisi economiche globali, che
la Corte ha assecondato soprattutto quando essi si richiamano (più o meno esplicitamente)
ai vincoli conseguenti all’adesione all’Unione europea A titolo di esempio, possiamo richiamare la sentenza n. 198 del 2012 in cui il giudice
costituzionale ha confermato la propria giurisprudenza secondo cui il legislatore
statale può validamente imporre alle Regioni limiti generali di spesa e fissare criteri
di bilancio orientati a ridurre le perdite finanziarie anche nelle materie rientranti
nella loro competenza legislativa riservata. Mentre nella sentenza n. 198 del 2008
ha giustificato la capacità delle leggi statali di limitare l’autonomia statutaria
delle Regioni al fine di porre un freno alle spese degli organi politici delle Regioni:
nel caso di specie, il legislatore avere fissato un limite massimo agli emolumenti
dei consiglieri regionali e al numero dei consiglieri e degli assessori.
Le espressioni linguistiche utilizzate in proposito sono assai varie (dal mero auspicio
di revisione legislativa alla dichiarazione di incostituzionalità accertata ma non
dichiarata o di “costituzionalità provvisoria”), ma possono essere riassuntivamente
ricondotte alla formula delle c.d. sentenze “monito”, con le quali il giudice costituzionale
introduce una scissione logica tra il dispositivo e la motivazione: il primo determina
il rigetto della questione di costituzionalità, la seconda - invece- lascia chiaramente
intendere che la normativa impugnata presenta fondati dubbi di compatibilità con il
dettato costituzionale Una vasta eco ha suscitato la sentenza in cui il giudice costituzionale, in materia
di sistema radiotelevisivo, ha dichiarato illegittimo non tanto il monopolio in sé,
quanto le modalità con le quali era regolato e esercitato, provvedendo —altresì— ad
evidenziare alcuni requisiti che avrebbe dovuto possedere una nuova disciplina della
materia (sentenza n. 225 del 1974). A tali criteri il Parlamento si è prontamente
adeguato approvando la legge di riforma del sistema n. 103 del 1975.
In altre situazioni interviene con modalità più sofisticate attraverso“sentenze additive
di principio”, con le quali il giudice costituzionale precisa i termini della collaborazione
con il legislatore: l’uno indica il principio a cui rifarsi per evitare un vizio di
incostituzionalità, l’altro deve individuare, nella sua discrezionalità politica,
i modi con cui dare attuazione agli indirizzi della Corte e trovare le relative coperture
economiche Vedi, ad esempio, la sentenza n. 243 del 1993.
Questo atteggiamento di self- restraint, tuttavia, viene meno dinanzi alle “colonne d’Ercole” rappresentate dalla necessità di salvaguardare alcuni diritti nei casi in cui il mancato intervento del legislatore rende concretamente non fruibile un determinato diritto costituzionalmente tutelato.
In altri termini, il giudice costituzionale deve sopperire alle omissioni del legislatore, sanzionando il mancato rispetto da parte del Parlamento del “dovere di protezione” che sta alla base della tutela costituzionale dei diritti fondamentali. La tutela contro le omissioni legislative si estende sia ai casi in cui il legislatore, pur legiferando, regola la materia in modo non adeguato, irragionevole o sproporzionato, sia allorché il legislatore riserva espressamente una disciplina a una determinata categoria di individui, escludendone altre: in questo caso, l’omissione parziale assume i connotati di un’esclusione discriminatoria (Fernández, 2009: 13).
Non essendo operante nel nostro ordinamento, l’istituto del ricorso diretto contro
le omissioni del legislatore
Sono state numerose le sentenze additive in materia penale, finalizzate soprattutto
ad assicurare l’equità del processo e i diritti delle parti Ad esempio, il giudice costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima
la disposizione che prevedeva la presenza del pubblico ministero all’interrogatorio
dell’imputato senza che fosse assicurata anche presenza al medesimo interrogatorio
del difensore dell’imputato (sentenza n. 190 del 1970); così come la posizione dell’imputato
condannato che non ha avuto tempestiva ed effettiva conoscenza del provvedimento è
stata equiparata a quella prevista dall’art.175 del c.p.p. per il pubblico ministero,
le parti e i difensori (sentenza n. 317 del 2009).
Ad esempio, nella sentenza n. 421 del 1995.
Riflettendo sul trend giurisprudenziale della Corte costituzionale italiana a 63 anni dalla sua prima sentenza
si nota una modificazione progressiva della sua collocazione all’interno del “parallelogramma”
dei poteri costituzionali. Se, per un verso, in materia di diritti individuali e di
libertà la natura di sindacato accentrato di costituzionalità entra in “competizione”
con il concomitante attivismo delle giurisdizioni comuni e di quelle sovranazionali
Al fine di meglio evidenziare il complesso rapporto tra discrezionalità legislativa e controllo della legittimità costituzionale delle leggi può essere utile focalizzare l’attenzione su due situazioni in cui il giudice costituzionale ha manifestato una posizione “particolare” nei confronti delle scelte politiche del Parlamento: mi riferisco, per un verso, all’atteggiamento di sostanziale “deferenza” assunta allorché ha dovuto decidere su “questioni scientifiche controverse”, che chiamano in causa le relazioni che intercorrono tra la scienza, la morale e il diritto ( Veronesi, P. (2007). Il corpo e la Costituzione. Milano: Giuffrè.Veronesi, 2007; D’Amico, 2008; Chieffi, 1993; Carusi, 2011); per un altro verso, al tentativo della Corte di “affidare” al legislatore la soluzione di una questione di legittimità costituzionale che investe problematiche non strettamente giuridiche, nei confronti delle quali il giudizio sociale non appare univoco (Razzano, 2019).
Nel primo caso, il giudice costituzionale ha individuato —in genere— nel Parlamento il soggetto primario cui compete operare un bilanciamento (il c.d. definational balancing), limitandosi a verificare se lo stesso conteneva un ragionevole e proporzionato equilibrio tra gli interessi e i diritti in potenziale conflitto.
Nel compiere tale operazione ha assunto, in genere, un atteggiamento di cautela e
di circospezione, preoccupandosi di non contrapporre un propria “visione” della materia,
alternativa rispetto a quella codificata nella legge: se possibile, non entra nel
merito scientifico dei problemi coinvolti, preferendo valorizzare le ragioni schiettamente
giuridiche Emblematica è, in proposito, l’ordinanza n. 369 del 2006, in materia di diagnosi
preimpianto nelle procedure di procreazione medicalmente assistita, in cui la Corte
perviene ad un’ordinanza di inammissibilità usando esclusivamente argomenti giuridico-formali.
Sentenza n. 185 del 1998.
Nel fondare la ratio decidendi delle proprie decisioni, il giudice costituzionale parte, in genere, da una presunzione
di legittimità delle scelte del Parlamento, ritenendo che queste possano essere ribaltate
soltanto nel caso in cui i dati scientifici su cui la legge si fonda siano “incontrovertibilmente
erronei o raggiungano una tale livello di indeterminatezza da non consentire in alcun
modo un’interpretazione ed un’applicazione razionali da parte del giudice Vedi, ad esempio, la sentenza n. 114 del 1998.
Siffatta presunzione, tuttavia, viene meno quando le norme mettono in discussione la salvaguardia di diritti di libertà tutelati dalla Costituzione: specialmente se il parametro del giudizio e rappresentato dal diritto all’autodeterminazione, alla salute, alla libertà di ricerca scientifica.
Importanti sono le argomentazioni con le quali il giudice costituzionale ha dichiarato
l’incostituzionalità di alcune importanti norme della legge n. 40 del 2004 in materia
di procreazione medicalmente assistita, ritenute lesive dei principi di dignità, di
autodeterminazione individuale e del diritto alla salute Vedi ad esempio, la sentenza n. 162 del 2014. Inoltre, sempre secondo il giudice costituzionale,
un divieto assoluto di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita
da parte di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili lede il
diritto costituzionale alla salute e risulta irragionevolmente contradditorio rispetto
a quanto già da tempo previsto dalla legge n. 194 del 1978 (disciplina dell’aborto)
che consente “l’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali al
fine di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica
patologia ereditaria” di cui la coppia è portatrice (sentenza n. 94 del 2015).
Vedi sentenza n. 438 del 2008.
In tema di libertà della ricerca scientifica, infine, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità
di norme che invadevano l’autonomia professionale dello scienziato o del professionista,
affermando che non spetta al legislatore “stabilire direttamente e specificamente
quali siano le pratiche terapeutiche ammesse”, dal momento che in materia “la regola
di fondo è costituita dalla autonomia e dalla responsabilità del medico che, sempre
con il consenso del paziente, opera le scelte professionali basandosi sullo stato
delle conoscenze a disposizione” Vedi sentenza n. 282 del 2002. Vedi sentenza n. 8 del 2011. Sempre in coerenza con siffatto indirizzo giurisprudenziale
ha ribadito che la legge deve riconoscere “al medico la possibilità di una valutazione
sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico scientifiche” (sentenza
n. 151 del 2009).
Il secondo caso cui abbiamo accennato all’inizio del paragrafo risulta —a sua volta— difficilmente inquadrabile all’interno dei tipi di tecniche interpretative richiamate nel paragrafo precedente. Si tratta dell’ordinanza n. 207 del 2018 con la quale la Corte affronta la questione di legittimità costituzionale dell’art.580 del codice penale che punisce l’istigazione o l’aiuto al suicidio: la sua peculiarità (od originalità) deriva dal fatto che il collegio giudicante, dopo aver rilevato che “l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti, non risolve il dubbio sollevato dal giudice a quo con una sentenza di accoglimento o con una sentenza “additiva” o “additiva di principio”, ma decide di “non decidere”. Infatti rinvia all’udienza pubblica del 24 settembre 2019 la trattazione della questione di costituzionalità al fine di “consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina”.
Nel corpo della motivazione sembrano giustapporsi due filoni argomentativi distinti (che evidenziano, forse, una divisione all’interno del collegio). L’uno evidenzia in astratto la non contrarietà alla Costituzione della normativa che incrimina l’istigazione e l’aiuto al suicidio: sia perché dall’art. 2 Cost. “discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo” anche creando attorno al soggetto interessato una sorta di “cintura protettiva” inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui”; sia in quanto la norma penale sarebbe funzionale alla tutela del diritto alla vita delle persone più deboli e vulnerabili.
L’altro, per contro, prende le mosse dall’oggetto specifico del giudizio a quo prendendo atto che possono determinarsi situazioni nelle quali l’assistenza di terzi
nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per
sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento
artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art.
32, secondo comma, Cost.”. Di conseguenza, sempre ad avviso del giudice costituzionale
“entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce,
quindi, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle
terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli
artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost.” Così in ordinanza n. 207 del 2018.
L’argomentare della Corte sembra prefigurare —trattandosi di un giudizio incidentale, quindi condizionato da un necessario legame con la concretezza della questione a quo— una sentenza di tipo additivo, oppure (qualora il giudice costituzionale ritenga di impegnare il Parlamento ad approvare una disciplina organica della complessa tematica del “fine vita” e della dignità al momento della morte) di una additiva di principio.
Invece, la Corte con una ordinanza demanda la soluzione del problema al legislatore:
il giudice sembra voler rinunciare a realizzare un “ad hoc balance” richiedendo al Parlamento un “definitional balance”. I motivi di tale rinuncia appaio, a nostro avviso, difficilmente comprensibili e solo
la viva vox dell’organo di giustizia costituzionale potrebbe chiarirli. In attesa, non si può
sfuggire al sospetto che il comportamento della Corte possa essere stato determinato
dall’intenzione non tanto di rivolgere un “monito” al Parlamento, quanto di evitare
una scelta difficile e non condivisa dall’intero collegio Tra i molti interventi si rinvia a Razzano, 2019.
I diritti sociali costituiscono una partizione della categoria generale dei diritti dell’individuo, ma debbono anche essere annoverati tra gli elementi che concorrono a caratterizzare la forma di Stato democratica e sociale: tale duplicità fa sì essi, per un verso, arricchiscono il principio personalistico e, per un altro verso, rappresentano i principi orientatori che lo Stato deve perseguite. Alcune Costituzioni —ad esempio, gli ordinamenti di cultura anglosassone e la Spagna— valorizzano preferenzialmente questo secondo profilo; altre, invece —come quella italiana— li inseriscono a pieno titolo tra i diritti costituzionali dell’individuo.
In entrambi i casi, tuttavia, i diritti sociali sono espressione del dovere dello
Stato di assicurare determinate prestazioni; tuttavia, l’ampiezza e la natura di tali
prestazioni non costituiscono una “variabile indipendente”, in quanto le scelte legislative
sono condizionate da alcuni fattori, come la quantità delle risorse disponibili, la
condizione complessiva della finanza pubblica e i vincoli imposti dall’adesione all’Unione
europea: si può parlare in proposito di “diritti finanziariamente condizionati” Così: Merusi, 1990: 30.
In altri termini, un medesimo diritto (all’abitazione, all’istruzione, ai servizi sociali, al lavoro e a un salario dignitoso, ecc.) può contenere al proprio interno un set di prestazioni più ampio in fasi economicamente espansive oppure più circoscritto (sino a ridursi al “nucleo indisponibile”) in situazioni di difficoltà economiche o di crisi del sistema di finanza pubblica.
Di conseguenza, è difficile determinare in astratto il grado di effettività assicurato
ai diritti sociali dalla giurisprudenza costituzionale, dal momento che in siffatta
valutazione entra in gioco una molteplicità di elementi eterogenei come la struttura
delle disposizioni costituzionali, il contesto economico e sociale in cui il giudice
deve decidere, la sensibilità sociale del collegio giudicante. Inoltre, in questa
materia il giudice costituzionale non deve decidere “a rime obbligate”, bensì possiede
un ampio margine di apprezzamento, il quale però trova le sue “colonne d’Ercole” non
valicabili nella necessità che le disposizioni oggetto del giudizio siano coerenti
con il principio di eguaglianza (ragionevolezza) e di proporzionalità e non intacchino
il contenuto essenziale delle prestazioni da assicurare a tutti i cittadini. Come
ha precisato la Corte costituzionale, l’effettiva fruibilità del nucleo indefettibile
dei diritti spettanti a determinate categorie di individui (nel caso di specie si
trattava di persone con disabilità) non può dipendere da scelte finanziarie che il
legislatore compie con previsioni che lasciano incerta nell’ an e nel quantum la misura della contribuzione, pena violare la dignità insita in ogni individuo Si vedano, le sentenze n. 275 del 2016 e n. 83 del 2019.
Tuttavia, esiste una diversità di atteggiamento tra le diverse giurisdizioni costituzionali:
tra chi affida valutazione delle scelte del legislatore al rispetto rigoroso di determinati
test di interpretazione Ad esempio, il Tribunale costituzionale federale di Germania ha individuato un test articolato essenzialmente su tre verifiche inerenti al rispetto del principio di effettività,
di indispensabilità (verificare l’esistenza di altre misure che possono rendere sufficiente
la protezione), di razionalità. Mentre il Tribunale costituzionale del Portogallo
è andato oltre sino a precisare che in ossequio al principio di eguaglianza il peso
dei sacrifici deve essere ripartito tra le diverse categorie di cittadini in modo
equilibrato e motivato, dimostrando di aver esplorato la fattibilità di misure alternative
rispetto a quelle prescelte).
In diverse occasioni, la Corte costituzionale ha precisato che “il legislatore nel
determinare l’ammontare delle prestazioni sociali può tener conto della disponibilità
delle risorse finanziarie purché le sue scelte siano ragionevoli e rispettose del
principio di proporzionalità” Ad esempio, nelle sentenze n. 180 del1982, n. 220 del 1988, n. 73 del 1992, n. 485
del 1992 e n. 347 del 1997.
Sentenza n. 173 del 2016. Vedi: Salazar, C. (2015). Crisi economica e diritti fondamentali, in Spazio costituzionale e crisi economica. Napoli: Jovene.
Brancati, B. (2018). Tra diritti sociali e crisi economica. Un difficile equilibrio per le Corti costituzionali.
Pisa: Pisa University Press.
Spesso il giudice costituzionale —pur salvaguardando la sostanza dei diversi diritti
sociali— ha assunto un atteggiamento di cautela, intraprendendo un percorso giurisprudenziale
attento a non invadere” il terreno” riservato alla discrezionalità politica del Parlamento
( Bianchi, P. (2006). La garanzia dei diritti sociali nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale.
Pisa: Plus.Bianchi, 2006; Salazar, C. (2000). Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali: orientamenti e tecniche decisorie
della Corte costituzionale a confronto. Torino: Giappichelli.Salazar, 2000; Furno, 2017). Nei periodi di “austerità” e di crisi delle finanze pubbliche, come
è stato evidenziato dalla dottrina, la sua giurisprudenza non è apparsa cristallina,
rimanendo incertezze circa l’effettiva quantità di sacrifici che possono essere patiti
da differenti categorie di persone a cause di esigenze di politica economica o di
vincoli posti dalle istituzioni comunitarie. Così, ad esempio, Guiglia, 2018. Ad esempio, sentenza n. 243 del 1993.
In altre decisioni la Corte ha riconosciuto la discrezionalità del legislatore nel
modulare il contenuto dei diritti sociali, limitandosi a verificare che la loro configurazione
legale non leda in modo irragionevole il contenuto essenziale del diritto: in altri
termini, ammette una gradualità nell’erogazione di prestazioni sociali e riconosce
che le esigenze finanziarie possano limitare l’ampiezza delle prestazioni sociali,
purché non si vanifichi il contenuto essenziale del diritto Nella sentenza n. 222 del 2013 il giudice costituzionale ha precisato che l’individuazione
dei beneficiari di alcune prestazioni sociali può essere circoscritta in ragione della
limitatezza delle risorse disponibili, ma tale scelta deve essere operata sempre e
comunque in ossequio al principio di ragionevolezza.
Infine, ha individuato nel principio di dignità (che garantisce tutti gli individui
indipendentemente dalla loro traiettoria di vita e dallo status civitatis) il confine oltre il quale la discrezionalità legislativa non può spingersi ( Ceccherini, E. (2008). La tutela della dignità delll’uomo. Napoli: Editoriale Scientifica.Ceccherini, 2008). A tal fine, si può richiamare l’orientamento del giudice costituzionale secondo
cui alcune cure ospedaliere e ambulatoriali che costituiscono il nucleo essenziale
del diritto alla salute devono essere erogate a favore di tutti, anche “indipendentemente
dalla regolarità della posizione delle persone che ne beneficiano Così nella sentenza n. 299 del 2010 ( Biondi dal Monte, F. (2013). Dai diritti sociali alla cittadinanza. Torino: Giappichelli.
Sentenza n. 275 del 2016.
I costituenti italiani, allorché affrontarono il tema della forma di Stato sotto il
profilo della distribuzione territoriale dei processi di decisione politica, furono
condizionati nella loro scelta da due elementi: che le esperienze storiche a cui ispirarsi
erano costituite da due prototipi contrapposti rappresentati dagli Stati federali
e gli ordinamenti unitari centralizzati; che non si poteva del tutto prescindere dal
processo storico che aveva portato alla nascita dello Stato italiano e, successivamente,
alla sua trasformazione e involuzione durante il periodo fascista Si veda Ghisalberti, M. (2000). Storia costituzionale d’Italia. Bari: Laterza.
Di conseguenza, il punto di sintesi tra le differenti posizioni fu trovato in una forma di Stato “intermedia” tra centralismo e federalismo, formalizzata nell’approvazione di un ordine del giorno con cui la seconda Sottocommissione definì i confini entro cui si sarebbero dovute incanalare le scelte dei costituenti: si intendeva, cioè, istituire le Regioni come enti autarchici (capaci di perseguire fini propri), autonomi (forniti di autonomia organizzativa e di potestà legislativa nelle materie di propria competenza), rappresentativi (dotati di organi elettivi a suffragio universale) e con autonomia finanziaria ( Baschieri, G., Bianchi d’Espinosa, L. y Gianattasio, C. (1949). La Costituzione italiana. Commento analitico. Firenze: Noccioli.Baschieri et al., 1949: 380).
Nel contrasto tra centralisti, regionalisti “spinti” e “tiepidi” prevalse una posizione mediana che, conformemente alla natura tipicamente pattizia della Costituzione italiana, evitò —per quanto possibile— formulazioni che fossero espressione omogenea di una visione unilaterale dello Stato. Infatti, la particolarità del regionalismo italiano che emerge dalle disposizioni costituzionali del Titolo V poggia su tre pilastri.
Innanzitutto, la Costituzione repubblicana introduce un elemento di discontinuità nell’evoluzione della forma di Stato, affermando per la prima volta la piena compatibilità tra natura unitaria dello Stato e decentramento politico ( Esposito, C. (1954). Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art.5 della Costituzione. Padova: CEDAM.Esposito, 1954: 82).
In secondo luogo, è molto forte l’ attenzione per le esigenze unitarie dell’ordinamento, che vengono salvaguardate sia premurandosi di incardinare il sistema delle autonomie territoriali all’interno di un contesto istituzionale attento alla cura degli interessi nazionali, sia attribuendo allo Stato competenze specifiche affinché le differenze tra le diverse comunità regionali non intacchino la parità tra i cittadini nel godimento dei diritti fondamentali e il principio di solidarietà. A differenza della regionalizzazione introdotta in Spagna ( Rolla, G. (2008). L’autonomia delle comunità territoriali. Profili costituzionali. Milano: Giuffrè.Rolla, 2008: 149), l’autonomia non tanto scaturisce dal principio dispositivo, ma si sviluppa su impulso dell’attività normativa dello Stato: come emerge dalla formulazione dell’art. 5 Cost. si utilizza l’espressione “promuove” per evidenziare che il processo di decentramento scaturisce dall’azione unilaterale dello Stato, che viene individuato come il soggetto che conforma l’autonomia delle comunità territoriali.
Infine, la Costituzione ha istituzionalizzato un sistema rigido di relazioni tra lo Stato e le Regioni, ispirato a una visione garantistica dell’autonomia, preoccupata di separare le rispettive attribuzioni e di prevedere meccanismi politici e giurisdizionali a tutela della rispettiva sfera di competenza: come è stato efficacemente rilevato, dal testo costituzionale emerge la presenza di livelli istituzionali che “si confrontano e si contrappongono restando arroccati all’interno di ambiti di competenza distinti e separati” ( Bartole, S. (1985). Le Regioni, le Province, i Comuni. Bologna: Zanichelli.Bartole, 1985: 28). Di conseguenza, nel testo costituzionale manca l’individuazione di strumenti di collaborazione tra interistituzionale; mentre si è tentato di introdurre una demarcazione rigida tra le competenze dei diversi livelli istituzionali, individuando nella Corte costituzionale l’arbitro cui rivolgersi per risolvere e conflitti di competenza.
Sin dai primi anni di funzionamento delle Regioni la dottrina si divise circa la posizione che il giudice costituzionale avrebbe assunto all’interno del contenzioso tra lo Stato e le Regioni: tra chi era propenso a prevedere che avrebbe adottato indirizzi giurisprudenziali rigorosi nella salvaguardia delle prerogative costituzionali delle Regioni e chi, per contro, era dell’avviso che l’organo di giustizia costituzionale si sarebbe limitato a confermare nella sostanza le soluzione adottate dallo Stato ovvero “concordate” tra i livelli istituzionali, mettendo al loro servizio “il più o meno spiccato acume esegetico dei giudici estensori delle sentenze” (Bassanini, 1978: 219; Paladini, 1979: 273). In realtà, se l’attenzione si concentra sugli esiti complessivi della giurisprudenza costituzionale è possibile intravedere nel comportamento della Corte una posizione articolata, difficilmente inquadrabile in schemi precostituiti.
Nella fase iniziale, di avvio dell’esperienza regionale, la Corte costituzionale ha
contribuito a mettere a fuoco le caratteristiche principali del sistema, svolgendo
una preziosa attività di supplenza innanzi ad alcune “lacune” del testo costituzionale.
Alcuni istituti e principi oggi consolidati sono stati il frutto della sua attività
interpretativa, piuttosto che della legislazione di attuazione del testo costituzionale:
è il caso, ad esempio, della funzione di indirizzo e di coordinamento, della disciplina
delle attività regionali di rilievo internazionale, dei criteri per determinare il
concetto legale di materia regionale, della definizione dei rapporti tra la legislazione
statale di principio e le leggi regionali nelle materie di competenza concorrente,
dell’indicazione delle relazioni tra le Regioni e l’Unione europea In effetti, la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di Regioni è stata
ampiamente studiata e dibattuta dalla dottrina, sino al punto che anche in Italia
—come è stato detto in Spagna— si può parlare di diritto regionale giurisprudenziale
( Aragón, M. (1986). ¿Estado jurisdiccional autonómico? Revista vasca de Administración Pública, 16, 7-22.
L’azione di supplenza della Corte è stata significativa anche in sede di attuazione della legge di revisione costituzionale n. 3 del 2001, allorché ha dovuto risolvere diverse problematiche conseguenti alla lacunosa formulazione del testo di legge. Non va sottovalutato, in proposito, che la Corte, a causa della mancata inserzione nella legge costituzionale n. 3 del 2001 di norme finali e transitorie, si è fatta carico, in più occasioni, dell’esigenza di assicurare la continuità e la funzionalità dei processi istituzionali, nonché di garantire la certezza del diritto e la sicurezza giuridica. La sua giurisprudenza in merito evidenzia un atteggiamento di cautela e la preoccupazione di assicurare una ragionevole continuità nel funzionamento del sistema costituzionale ( Rolla, G. (2007). Scritti sulla giustizia costituzionale. Genoa: ECIG. Rolla, 2007).
D’altra parte, siffatto atteggiamento appare comprensibile, dal momento che il giudice di costituzionalità delle leggi ha dovuto navigare tra Scilla e Cariddi, tra il rischio di favorire la continuità con il passato (attraverso un’ interpretazione restrittiva delle disposizioni costituzionali) e il pericolo di attuare in via giurisdizionale —a fronte dell’inerzia del legislatore— le disposizioni del “nuovo” titolo V della Costituzione.
In tema di finanza pubblica il giudice costituzionale ha avvertito l’esigenza che
il passaggio dal vecchio al nuovo sistema avvenisse in modo graduale e ha auspicato
la definizione di una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dal
vecchio al nuovo sistema, che poteva decorrere soltanto successivamente alla definizione
da parte dello Stato di “un complessivo ridisegno dell’autonomia tributaria delle
Regioni” Si vedano, ad esempio, la sentenza n. 37 del 2004 e la sentenza n. 31 del 2004.
Secondo questa prospettiva, il giudice costituzionale ha riconosciuto, ad esempio,
transitoriamente la validità degli atti di programmazione della rete scolastica compiuti
dal Ministero, in attesa che le Regioni provvedano a dotarsi di apparati burocratici
regionali preposti all’esercizio di tale funzione. Mentre in materia di attività culturali,
ha negato che l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 abbia determinato
l’automatica sopravvenuta incostituzionalità della legislazione statale vigente Vedi sentenza n. 255 del 2004.
Il giudice costituzionale non si è limitato a svolgere un’attività di supplenza del legislatore ordinario, ma ha altresì individuato, per un verso, nello Stato il principale soggetto attuatore dell’autonomia regionale ed assunto, per un altro verso, il ruolo di custode del carattere unitario dell’ordinamento.
In relazione al primo profilo, la Corte ha affidato alla legislazione statale il compito
di determinare il significato normativo delle materie regionali, introducendo una
sostanziale decostituzionalizzazione degli ambiti di competenza a regionale, dal momento
che questi variavano a seconda della concreta definizione giuridica delle materie
indotta dall’evolversi della produzione normativa In merito al problema della definizione giuridica delle materia, si veda: Paladin,
1971: 3; Rolla, G. (1982). La determinazione delle materie di competenza regionale nella giurisprudenza
della Corte costituzionale. Le Regioni, 100-123.
Ma l’elemento che maggiormente ha caratterizzato l’intera giurisprudenza costituzionale in materia di rapporti tra lo Stato e le Regioni è costituito dalla sua attenzione per la salvaguardia del principio unitario riconducibile all’art. 5 Cost. Tale principio è stato assimilato alla nozione di interesse nazionale, sia legittimando —all’interno di materie di competenza regionale— la riserva allo Stato di poteri necessari per la salvaguardia dell’unità giuridica o delle attività internazionali della Repubblica; sia attribuendo al Governo strumenti per esercitare l’attività di indirizzo e di coordinamento nei confronti dell’azione amministrativa regionale. Più recentemente, in una fase di crisi delle finanze pubbliche, il richiamo all’interesse nazionale ha consentito di giustificare l’espansione del legislatore statale in ambiti di spettanza regionale, al fine di evitare che la capacità autonoma di spesa delle Regioni impedisca la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica e il rispetto dei vincoli europei ( Masala, P. (2016). La tutela dei diritti sociali nelle situazioni di crisi economica: gli orientamenti della Corte costituzionale italiana. En Stato di diritto e crisi delle finanze pubbliche. Napoli: ESI.Masala, 2016: 189).
Nel medesimo tempo la Corte costituzionale ha cercato di riequilibrare la garanzia degli interessi unitari dell’ordinamento “risarcendo” le Regioni del necessario rafforzamento del ruolo di indirizzo del legislatore statale attraverso l’introduzione del principio di “leale collaborazione” tra i livelli istituzionali. Se nel periodo di avvio dell’esperienza regionale, l’attenzione principale si è concentrata sulla determinazione dei criteri utilizzabili per individuare le materie di rispettiva competenza e sul perfezionamento dei meccanismi giurisdizionali utilizzabili per risolvere i possibili conflitti; per contro, in una fase di regionalismo maturo si delinea una inversione di tendenza a favore di un autonomismo di tipo cooperativo, rafforzando gli strumenti di partecipazione e di negoziazione ( Toniatti, R. (2003). Il regionalismo relazionale e il governo delle reti: primi spunti ricostruttivi. En Il nuovo ordinamento regionale. Milano: Giuffrè.Toniatti, 2003: 167; Rolla, G. (2002). Relazioni tra ordinamenti e sistema delle fonti .Considerazioni alla luce della legge costituzionale 3/01. Le Regioni, 30 (2-3), 321-350.Rolla, 2002: 321).
La giurisprudenza costituzionale ha qualificato la collaborazione come un “criterio”
a cui occorre ispirarsi per rispettare il criterio di sussidiarietà nell’esercizio
delle competenze ripartite tra lo Stato e le Regioni. A tal fine ha introdotto alcune
regole per individuare le fattispecie in cui la leale collaborazione è necessaria:
è il caso, ad esempio, in cui si deve decidere su fattispecie che coinvolgono materie
tanto di competenza statale che regionale (“sovrapposizione di materie”);oppure quando
una determinata attività, pur formalmente rientrante nella potestà normativa regionale,
viene avocata dallo Stato per esigenze di natura unitaria, in base al criterio di
sussidiarietà Ad esempio, le sentenze n. 330 del 2011 e n. 109 del 2011, Ad esempio nella sentenza n. 255 del 2011.
Va, tuttavia, precisato che sinora la Corte ha limitato l’operatività della leale collaborazione alle fonti di grado secondario e amministrative, escludendola nei confronti delle leggi, a meno che tali procedure non siano, direttamente o indirettamente, previste dalla Costituzione. Tale orientamento restrittivo non considera, tuttavia, che la garanzia istituzionale del principio di autonomia dovrebbe operare anche nei confronti del procedimento legislativo: infatti, la previsione dell’art. 70 Cost. (La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere) deve essere interpretata in stretto collegamento con il principio generale affermato dall’art. 5 Cost., secondo cui la Repubblica deve adeguare i metodi della legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Va, quindi, positivamente valutata una prima, timida apertura alla leale collaborazione
nei procedimenti legislativi, che sembra emergere da un obiter dictum contenuto nella sentenza n. 251 del 2016 In questa sentenza il giudice costituzionale, a proposito di alcuni decreti legislativi
che incidevano su materie di competenza legislativa “mista” ha precisato che “occorre
contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle stesse con la garanzia delle
funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie”; e che tale obiettivo può essere
conseguito attraverso una necessaria “intesa” tra i livelli istituzionali da raggiungere
in sede di Conferenza unificata tra lo Stato e le Regioni. In proposito, Bifulco,
2017.
L’ attenzione per la natura unitaria dell’ordinamento si è manifestata in modo evidente nelle questioni in cui la Corte ha affrontato rivendicazioni di natura identitaria delle Regioni. In generale, si può affermare che la salvaguardia delle esigenze unitarie e la tutela degli interessi generali hanno caratterizzato una giurisprudenza favorevole ad assicurare l’omogeneità del sistema delle autonomie regionali e a depotenziare le spinte alla differenziazione territoriale.
A tal proposito, non va sottovalutato come un’idea delle Regioni quali enti di natura
amministrativa (piuttosto che costituzionale) abbia trovato un conforto culturale
nella dottrina amministrativa, cui si debbono i primi inquadramenti teorici della
natura degli enti territoriali (Romano, 1946: 15; Zanobini, 1950: 182; Esposito, C. (1954). Autonomie locali e decentramento amministrativo nell’art.5 della Costituzione. Padova: CEDAM.Esposito, 1954: 6; Martines, 1952: 101; Berti, 1975: 277; Giannini, 1951: 878). Mi riferisco, in particolare,
per un verso, alla concezione unitaria dell’amministrazione, considerata un corpo
omogeneamente rivolto alla specificazione della volontà generale del legislatore,
i cui atti debbono essere conformi alla volontà generale dello Stato, non potendosi
ad essa contrapporre Da ciò il consenso per quelle teorie le quali sostenevano che gli interessi perseguiti
dagli enti dotati di autonomia, pur possedendo un autonomo riconoscimento, dovevano
sempre “subordinarsi a quelli generali che, per estensione, per contenuto e per grado
è compito dello Stato di far valere”; ovvero ritenevano che fossero autonomi gli enti
che “col provvedere a fini propri, provvedono a fini che sono anche dello Stato....
che lo Stato ritiene di attuare meglio attraverso l’opera di enti”.
La giurisprudenza costituzionale sembra aver rafforzato con coerenza l’idea di un regionalismo non solo unitario, ma anche uniforme e tale visione ha potuto giovarsi del fatto che in materia di interpretazione del Titolo V della Costituzione la Corte non si è trovata nella necessità di decidere “a rime obbligate”, dato che —come è stato convincentemente affermato— “si va sempre di più affermando la tendenza a ravvisare nelle decisioni dei giudici continentali, e con essi di quelli del nostro Paese, il portato non già di una mera traduzione in termini concreti della volontà legislativa, ma il risultato di un processo più complesso, nel quale si inseriscono scelte e valutazioni autonome degli stessi giudici” (Bartole, 1980: 9).
Siffatto orientamento si è manifestato in diverse occasioni.
Ciò è avvenuto, innanzitutto, nelle questioni in cui ha dovuto misurarsi con la specialità delle cinque Regioni ad autonomia differenziata. Gli orientamenti manifestati in seno all’assemblea costituente erano sufficientemente espliciti nel ritenere che alle Regioni a autonomia speciale dovesse essere attribuita una posizione di maggior rilievo, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo: anche se appare problematico precisare le competenze in cui si sostanzia “quel di più” che deve essere loro riconosciuto, era indubbio che la specialità dovesse implicare un’autonomia più vasta e un complesso di attribuzioni più intense, non potendo lo status di specialità “tradursi nella privazione, anche parziale, di taluni poteri o funzioni garantiti alla regioni dalla Costituzione” (Bassanini, 1971: 1732; Azzena, 1979). Inoltre, nelle impostazioni iniziali si riteneva che la specialità dovesse differenziare ciascuna delle Regioni elencate nell’art. 116 Cost. dalle altre.
Tuttavia, il processo attuativo delle regioni ad autonomia speciale ha progressivamente depotenziato la specificità dei singoli ordinamenti, al punto che si può parlare di un “diritto comune” delle Regioni ad autonomia speciale; mentre nel caso dei rapporti con le regioni a statuto ordinario si è determinato —a giudizio di un’autorevole dottrina— un ribaltamento del modello risultante dalla Costituzione ( D’Atena, A. (1991). Costituzione e Regioni. Milano: Giuffrè.D’Atena, 1991: 381). Tra i fattori che hanno concorso a svolgere tale funzione omogeneizzatrice un ruolo importante è stato assolto dalla giurisprudenza della Corte costituzionale che, sin dalle sue prime sentenze, ha prodotto una giurisprudenza finalizzata a omologare le diverse Regioni speciali e ad estendere a loro limiti formalmente previsti per le sole Regioni ordinarie (Bartole y Vandelli, 1980; Paladin, L. (1985). Diritto regionale. Padova: CEDAM.Paladin, 1985: 77; Rolla, 1973: 1680). In altri termini, si sono stemperate —nel nome dell’unità dell’ordinamento e della priorità degli interessi nazionali— le diversità e appiattite le peculiarità dei singoli ordinamenti.
Interessante è la posizione assunta, successivamente, dalla Corte in merito alle richieste
di modifica territoriale che coinvolgono Regioni ad autonomia speciale. Ad esempio,
risolvendo un conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Valle d’Aosta nei
confronti dello Stato, in relazione al procedimento di distacco di un Comune da una
Regione ordinaria con conseguente aggregazione a una Regione speciale, il giudice
costituzionale segue un’argomentazione meramente formale, mentre tralascia ogni riferimento
al dato sostanziale sotteso al conflitto. Infatti, il giudice costituzionale, respingendo
il ricorso, precisa, da un lato, che l’obbligo di coinvolgere gli enti interessati
nel procedimento per la modificazione del territorio della Regione riguarda tutte
le Regioni ordinarie ai sensi dell’art. 132 Cost.; dall’altro lato, che l’esito del
referendum non produce effetti vincolanti nei confronti dell’altro ente interessato
al procedimento di aggregazione Vedi, sentenza n. 66 del 2007.
Così argomentando, la Corte non entra nel merito del problema procedurale sintetizzabile
nel quesito come sia possibile modificare il territorio di una regione ad autonomia
speciale. Infatti, se il sub procedimento interessante la Regione ordinaria è dettagliatamente disciplinato dall’art.
132 Cost., gli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale non prevedono apposite
procedure di modificazione e tale “omissione” induce a ritenere che i legislatori
costituzionali non avessero preso in considerazione la possibilità di modificare il
loro territorio Anzi, sembra che gli Statuti speciali abbiano inteso “pietrificare” l’individuazione
del territorio al momento della loro istituzione D’altra parte, l’identificazione
dei Comuni e delle Province appartenenti ad una Regione ad autonomia speciale, in
alcuni casi, predeterminata dal dato geografico (come nel caso delle due isole), in
altri dal fattore identitario e linguistico (come nel caso delle tre Regioni di confine).
Il giudice costituzionale motiva —a nostro avviso— la decisione in modo volutamente
lacunoso, in quanto non prende in considerazione (con opportuni obiter dicta) come si possa avviare e concludere il sub procedimento interno alle Regioni ad autonomia speciale, né contiene alcun indirizzo
al legislatore su come disciplinare tale fase: alimentando, di fatto, un’incertezza
circa il procedimento da adottare nel caso oggetto del conflitto di attribuzione e
in ulteriori richieste interessanti altre Regioni ad autonomia speciale Come nel caso dei tentativi di variazione territoriale ex art. 132 Cost. da parte
di alcuni Comuni veneti confinanti con il Trentino-Alto Adige/Südtirol o il Friuli-Venezia Giulia, spinti anche dall’ambizione di accedere alle più favorevoli
condizioni di autonomia finanziaria di cui beneficiano le due Regioni speciali.
L’ordinamento italiano non è riuscito a emanciparsi dall’idea che le Regioni siano espressione di un decentramento essenzialmente regolato “dall’alto” e territorialmente omogeneo sotto il profilo delle competenze. Le tappe che ne hanno scandito la nascita e il consolidamento evidenziano l’affermazione di una spinta centripeta finalizzata sia a assicurare l’uniformità dell’ordinamento generale attraverso l’attuazione di un “modello” comune che plasma omogeneamente l’organizzazione delle singole comunità territoriali; sia a neutralizzare le specificità territoriali attraverso l’attribuzione di comuni ambiti di autonomia e di competenza.
Tale visione dell’autonomia regionale, tuttavia, sembra oggi messa in crisi da un rafforzamento delle tendenze favorevoli a un regionalismo asimmetrico e di natura identitaria, in cui l’autonomia si lega alla “storia” dei territori e il rapporto con la tradizione si manifesta con il riconoscimento di specifici istituti o tradizioni giuridiche derogatorie rispetto all’ordinamento giuridico generale ( Rolla, G. (2019). L’evoluzione dello Stato regionale in Italia: tra crisi del regionalismo omogeneo e aspirazioni a un’autonomia asimmetrica dei territori. Le Regioni, 1, 73-97.Rolla, 2019: 73). Sono numerosi nel diritto comparato i casi in cui il riconoscimento di particolari forme di differenziazione è favorito dalla volontà di tutelare o rafforzare determinate minoranze; d’altra parte, un’autorevole dottrina ha ritenuto che sia l’ elemento culturale il tratto giustificante il principio di autonomia (Haberle, 1994: 129), e che questo ultimo costituisca un criterio di organizzazione che favorisce la creazione di una comunità nazionale formata da una pluralità di comunità più circoscritte che mantengono la propria peculiarità ( Fossas, E. y Requejo, F. (1999). Asimetría federal y estado plurinacional. El debate sobre la acomodación de la diversidad en Canadá, Bélgica y España. Madrid: Trotta.Fossas y Requejo, 1999).
L’atteggiamento del giudice costituzionale italiano nei confronti delle tendenze identitarie di vario tipo può essere sinteticamente riassunto nella volontà di scongiurare che esse costituiscano un pericolo per il tessuto culturale unitario della Repubblica. Un esempio —a mio avviso— probante di siffatta preoccupazione può essere offerto da alcune decisioni inerenti la competenza delle Regioni di tutelare, valorizzare e promuovere con apposite leggi i gruppi linguistici minoritari presenti nei rispettivi territori.
Tra queste possiede un significato emblematico la sentenza n. 159 del 2009 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge n. 29 del 2007 della Regione Friuli-Venezia Giulia contenente norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana. Indubbiamente alcune sue disposizioni costituivano un “evidente” forzatura del dettato costituzionale: ad esempio, la normativa sulla toponomastica, prevedendo l’utilizzazione della sola lingua minoritaria, sembrava contrastare con il riconoscimento della lingua italiana come lingua ufficiale; così come la scelta di estendere l’utilizzo obbligatorio della lingua friulana sull’intero territorio regionale —invece di circoscriverlo alle sole aree di insediamento del gruppo linguistico— appariva irragionevole e sproporzionata.
Si può, pertanto, comprendere che la Corte costituzionale possa aver manifestato preoccupazione sia per le conseguenze discriminatorie che la normativa poteva generare all’interno del territorio regionale nei confronti di coloro che non appartenevano alla minoranza linguistica, sia per gli effetti emulativi che una siffatta interpretazione delle competenze linguistiche regionali avrebbe potuto esercitare nei confronti di altre Regioni, sia speciali che ordinarie.
Tuttavia, il percorso argomentativo utilizzato dalla Corte costituzionale sembra comprimere oltre misura la competenza legislativa delle Regioni speciali in materia di tutela e valorizzazione delle minoranze linguistiche: con la sua giurisprudenza il giudice costituzionale ha depotenziato un principio qualificante la specialità regionale al fine di scongiurare il pericolo di una lesione del tessuto culturale unitario della Repubblica. Il giudice costituzionale, infatti, basa la sua ratio decidendi non già sugli Statuti delle regioni ad autonomia speciale, bensì sull’art. 6 Cost. (e la relativa legislazione di attuazione) che riserva allo Stato la competenza a individuare e disciplinare le lingue minoritarie Di conseguenza, la l Corte ha ridotto la competenza regionale in materia al rango di normativa di attuazione della legislazione statale.
Tale orientamento è stato più esplicitamente confermato in occasione di un ricorso
avverso la legge n. 11 del 2009 della Regione Piemonte, allorché ha affermato che
la cura del pluralismo linguistico deve essere riservata in prima istanza allo Stato,
mentre le Regioni possono legiferare in materia di minoranze linguistiche e culturali
presenti sul territorio purché in attuazione della disciplina statale Si veda la sentenza n. 170 del 2010. “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”.
Da ultimo, la funzione del giudice costituzionale di garante dell’unità istituzionale
e politica della Repubblica si è manifestata attraverso la posizione di decisa intransigenza
con cui ha contrastato spinte e pulsioni di natura indipendentistica. A differenza
del Tribunale costituzionale spagnolo —che, pur dichiarando con nettezza l’incostituzionalità
del processo indipendentista catalano, ha ritenuto in un obiter dictum che l’acquisizione di uno status di indipendenza rappresenta un’aspirazione politica da perseguire nei modi e nelle
forme regolate dalla Costituzione— Sentenza n. 42 del 2014. Per maggiori riferimenti dottrinali sul punto si rinvia a
Rolla, G. (2019). Federalismo e Regionalismo in Europa. Alcune riflessioni sulle dinamiche
in atto. Diritto Pubblico Comparado ed Europeo, 21, 685-710.
Affrontando il tema della revisione dello Statuto speciale della Sardegna, la Corte
costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge regionale
n. 7 del 2007 (istitutiva di una “Consulta per il nuovo Statuto di autonomia e sovranità
del popolo sardo”) relativamente al punto in cui affidava alla Consulta regionale
il compito di definire, oltre ai principi e i caratteri della identità regionale,
le “ragioni fondanti l’autonomia e sovranità” dell’isola. Il giudice della costituzionalità
delle leggi intravede nelle disposizioni regionali il tentativo di delineare uno Statuto
profondamente differenziato da quello attuale e “caratterizzato da istituti adeguati
ad accentuati modelli di tipo federalistico, normalmente frutto di processi storici
nei quali le entità territoriali componenti lo Stato federale mantengono forme ed
istituti che risentono della loro preesistente condizione di sovranità” Così in sentenza n. 365 del 2007.
Anche nel caso della legge n. 16 del 2014 della Regione Veneto avente ad oggetto l’indizione
di un referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto il giudice costituzionale
giudice ha richiamato una costante giurisprudenza secondo cui “pluralismo e autonomia
non consentono alle Regioni di qualificarsi in termini di sovranità, né permettono
che i loro organi di governo siano assimilati a quelli dotati di rappresentanza nazionale” Sentenza n. 118 del 2015.
La dimensione “politica” della giurisprudenza costituzionale ha trovato un terreno
fertile allorché le sue decisioni hanno avuto a oggetto profili delicati della democrazia
rappresentativa, come la richiesta da parte del corpo elettorale di una partecipazione
diretta ai processi decisionali e la valutazione degli effetti distorsivi che le più
recenti leggi elettorali producevano sul corretto rapporto tra esercizio del diritto
di voto e formazione della rappresentanza politica. Nel primo caso, ha affrontato
il tema della possibile convivenza tra assemblee parlamentari e istituti di democrazia
deliberativa; nel secondo della compatibilità della struttura dei sistemi elettorali
con i modi di formazione della democrazia rappresentativa ricavabili dalla Costituzione.
Si tratta di problematiche che mettono in crisi il circuito della democrazia rappresentativa
individuato dai nostri Costituenti, il quale faceva perno sul binomio suffragio universale
e ruolo dei partiti politici come strumento per assicurare la partecipazione dei cittadini
alla determinazione della politica nazionale A questo proposito studi politologici hanno qualificato la grave crisi di rappresentatività
delle istituzioni politiche ricorrendo all’espressione di “democrazie senza democrazia”
( Salvadori, M. L. (2009). Democrazie senza democrazia. Bari: La Terza.
La Corte costituzionale —in sede di controllo di ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo— ha individuato nel referendum un istituto spurio rispetto a un sistema imperniato sulla forma di governo parlamentare e sul ruolo centrale dei partiti politici: di conseguenza gli istituti di partecipazione diretta alle decisioni politiche sono stati valorizzati solo nel caso in cui il loro esercizio non fosse alternativo, ma complementare alla democrazia rappresentativa. Siffatto orientamento giurisprudenziale, d’altra parte, trovava un conforto sia nelle posizioni espresse nel corso dei lavori in Assemblea costituente, sia nelle soluzioni adottate dal Parlamento in sede di disciplina normativa degli istituti referendari.
Con riferimento al dibattito svoltosi durante i lavori dell’Assemblea costituente, un’atmosfera inizialmente favorevole ad ammettere varie forme di democrazia diretta perse progressivamente di consistenza a causa del manifestarsi di forti preoccupazioni per le conseguenze che un’applicazione distorta di tali istituti avrebbe potuto riverberare sulla funzionalità del sistema rappresentativo: tanto che il Presidente dell’Assemblea costituente, riassumendo gli esiti del dibattito, si era premurato di ricordare che anche i sostenitori più convinti del referendum riconoscevano l’opportunità di “cautele e regolazioni per fare un buono ed avveduto uso dell’istituto” (Luciani, 2005: 31; Nania, 1974: 662; Rolla, 2016: 207).
A sua volta, il legislatore —dopo avere tenuto per 22 anni questo istituto in una
sorta di “limbo” a causa della mancata approvazione della legge di attuazione— ha
introdotto con la legge n. 352 del 1970 stringenti limiti al fine di escludere che
l’esercizio del referendum possa interferire con la democrazia rappresentativa. Basti
considerare che gli artt. 31 e 34 di tale legge impediscono una sovrapposizione tra
lo svolgimento del referendum e il rinnovo delle assemblee parlamentari; mentre il
successivo art. 39, introducendo una clausola di improcedibilità della richiesta di
referendum In base alla quale, se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge
o le singole disposizioni cui il referendum si riferisce sono state abrogate, l’Ufficio
centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso.
A sua volta la giurisprudenza costituzionale, proseguendo gli indirizzi sopra richiamati, ha svolto una funzione “creativa” finalizzata a enucleare dalla ratio dell’istituto limiti ulteriori rispetto a quelli inizialmente ipotizzati. In tal modo ha favorito una trasfigurazione del referendum abrogativo, limitandone selettivamente i modi di esercizio: la ratio unitaria che emerge dalla sua ampia giurisprudenza in materia è identificabile nella volontà di evitare che il referendum possa trasformarsi in uno strumento privilegiato di contrapposizione politica del corpo elettorale nei confronti della rappresentanza politica presente in Parlamento.
Nella sua azione di limitazione delle materie suscettibili di referendum abrogativo
il giudice costituzionale non solo ha interpretato estensivamente le materie contenute
nell’art. 75 Cost. In tema di leggi tributarie il giudice costituzionale ha precisato che appartengono
a tale categorie tutte le norme che determinano un prelievo forzoso da parte dello
Stato delle risorse economiche dei contribuenti, finalizzato alla soddisfazione di
pubblici bisogni; mentre nel tipo “leggi di bilancio” ha fatto rientrare tutte le
norme che incidono sul quadro delle coerenze macroeconomiche e che sono funzionali
a conseguire un equilibrio di bilancio. In tema di leggi di autorizzazione a ratificare
trattati internazionali, la Corte ha ritenuto che dovessero rientrare nel divieto
anche le leggi di esecuzione dei trattati internazionali regolarmente ratificati e
quelle necessarie per dare attuazione agli obblighi internazionali.
Le linee-guida per valutare l’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo
sono state fissate nella fondamentale sentenza n. 16 del 1978 e via via affinate nella
successiva giurisprudenza Per ulteriori riferimenti si rinvia ( Rolla, G. (2018). L’organizzazione costituzionale dello Stato. Milano: Giuffrè.
Innanzitutto, sono state ritenute inammissibili le richieste di referendum il cui
quesito è eterogeneo e privo di una matrice razionalmente unitaria, in quanto contraddicono
la natura del referendum che si basa su di una pronuncia sintetica del corpo elettorale
(sì o no) attorno ad un quesito specifico Si veda, ad esempio, sentenza n. 49 del 2005. A proposito dei caratteri che, secondo
la giurisprudenza costituzionale, deve possedere il quesito abrogativo: Carnevale, P. (1992). Il referendum abrogativo e i limiti alla sua ammissibilità nella giurisprudenza costituzionale.
Padova: CEDAM.
Mangia, A. (1999). Referendum. Padova: CEDAM.
Si vedano, ad esempio, le sentenze n. 47 del 1991 e n. n. 92 del 2012.
Infine, si è esclusa l’ammissibilità di referendum volti ad abrogare leggi riconducibili
a due distinte tipologie: le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato e quelle
costituzionalmente necessarie. Anche se questi due tipi tendono talvolta a confondersi,
si possono considerare a contenuto costituzionalmente vincolato le norme primarie
la cui perdita di efficacia determinerebbe un’indiretta lesione di specifiche disposizioni
costituzionali (come nel caso delle disposizioni che derivano da obblighi connessi
all’adesione dell’Italia all’Unione europea); mentre appartengono, invece, alla categoria
delle leggi costituzionalmente necessarie le norme primarie la cui abrogazione priverebbe
totalmente di efficacia un principio o impedirebbe il funzionamento di un organo la
cui esistenza è garantita dalla Costituzione Da ciò, ad esempio, il divieto di abrogazione totale di una legge necessaria per assicurare
la protezione di diritti costituzionalmente garantiti; ovvero di leggi che regolano
profili necessari inerenti alla composizione di organi costituzionali o di rilevanza
costituzionale.
Tra le leggi costituzionalmente necessarie occupa una posizione particolare la legislazione
in materia elettorale: in proposito, il giudice costituzionale ha sintetizzato le
regole cui si debbono attenere i referendum in materia, sottolineando come le proposte
di referendum non possono riguardare una legge elettorale nella sua interezza, e come
i quesiti debbano essere formulati in modo che dall’esito del referendum residui,
comunque, una normativa immediatamente applicabile, in modo da garantire la “costante
operatività dell’organo” Si veda la sentenza n. 13 del 2012. Circa i problemi di ammissibilità dei referendum
in materia elettorale: Lanchester, 1992; Biancolatte, 2008; Bin, 1999; Rolla, G. (2018). L’organizzazione costituzionale dello Stato. Milano: Giuffrè.
Di recente, il giudice costituzionale ha dovuto misurarsi anche con la delicata problematica della legislazione elettorale —elemento portante della democrazia rappresentativa—: la sua giurisprudenza si è sviluppata lungo un sentiero normativo assai delicato in cui la linea di demarcazione tra discrezionalità politica e illegittimità non è sempre netta, così come i parametri costituzionali da utilizzare non sempre risultano univoci.
A partire dal 2005 il sistema politico è apparso difficilmente governabile, l’instabilità degli esecutivi si è accentuata e si è accresciuta la difficoltà di esprimere delle solide maggioranze: di conseguenza, il Parlamento ha tentato di affrontare il problema approvando nuove leggi elettorali che, per un verso, miravano, attraverso premi di maggioranza, a favorire la formazione di un indirizzo politico omogeneo e, per un altro verso, limitavano in misura significativa il potere dell’elettore di scegliere i propri rappresentanti. Tuttavia, queste leggi sono state dichiarate in più parti costituzionalmente illegittime, valorizzando il ruolo della Corte quale organo di mediazione nei conflitti “politici” (Minincleri, 2017; Ferri, 2017; Tondi, 2017; Baldini, 2017; Tarli Barbieri, G. (2018). La legislazione elettorale nell’ordinamento italiano. Milano: Giuffrè.Tarli, 2018).
Nel 2014, il giudice costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime parti
della legge n. 270 del 2005. In primo luogo, ha ritenuto che il premio di maggioranza
previsto per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato —suscettibile di trasformare
una maggioranza anche esigua di voti in una maggioranza assoluta di seggi— non rispettasse
i criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, finendo per snaturare il principio
fondamentale di eguaglianza del voto. Quindi, ha considerato illegittima la scelta
del legislatore di rimettere interamente ai partiti la formazione delle liste e l’ordine
delle candidature, in quanto non consentiva all’elettore di esprimere almeno una preferenza
sui candidati da eleggere Così in sentenza n. 1 del 2014.
Successivamente, nel 2017, la Corte ha dichiarato incostituzionale nei suoi elementi essenziali la legge elettorale n. 52 del 2015 nelle parti che disciplinavano il ballottaggio e la possibilità per i capilista di presentarsi in più collegi. La prima normativa (nella misura in cui potenzialmente consentiva di conseguire un premio di maggioranza anche a una lista che aveva avuto nel primo turno un consenso esiguo) ledeva il principio di eguaglianza sotto il profilo della ragionevolezza: infatti, la lista più votata aveva una sovra rappresentazione dei parlamentari rispetto ai voti effettivamente conseguiti. Invece, la possibilità per i capilista di presentarsi in numerosi collegi produceva, secondo il giudice costituzionale, un’alterazione del principio di rappresentanza in quanto riservava alla piena discrezionalità del capolista (che poteva liberamente decidere per quale collegio optare e “scegliere” i primi tra i non eletti che divenivano, di conseguenza, deputati) il destino del voto di preferenza espresso dall’elettore.
Nel motivare la propria decisione il giudice costituzionale ha utilizzato come parametro fondamentale il principio di ragionevolezza e di proporzionalità, ritenendo che se l’obiettivo perseguito dal legislatore era costituzionalmente corretto —favorire la formazione di maggioranze parlamentari omogenee—, invece le soluzioni individuate risultavano eccessivamente sbilanciate a danno di altri interessi costituzionali. Se con questa ratio decidendi la Corte entra nel merito delle soluzioni introdotte dal Parlamento, con un obiter dictum finale si fa carico delle possibili conseguenze di una dichiarazione di incostituzionalità, ribadendo il principio della continuità degli organi costituzionali. Pertanto il giudice costituzionale, precisando che gli effetti delle dichiarazioni d’incostituzionalità si produrranno “esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale”, fa salvi tutti gli atti che le Camere hanno adottato prima dello svolgimento di nuove consultazioni elettorali: anche quelli di maggior rilevanza politica e costituzionale come una legge di riforma della Costituzione, l’elezione di giudici costituzionali e membri del Consiglio superiore della magistratura, l’approvazione della fiducia al governo, l’elezione del Presidente della Repubblica (Rescigno, 2014: 34; Giupponi et al., 2014: 629; D’Andrea, 2014: 44; Carnevale, 2013; Serges, 2014).
[1] |
Soprattutto la legge costituzionale n. 1 del 1948 e la legge ordinaria n. 87 del 1953. |
[2] |
Ad esempio, nella sentenza n. 356 del 1996 |
[3] |
Ad esempio, nella ordinanza n. 19 del 2003. |
[4] |
Così nella sentenza n. 1 del 1956. |
[5] |
In precedenza, la dottrina prevalente —anche alla luce di un’importante sentenza delle Sezioni unite penali della Corte di Cassazione, che nel febbraio del 1948 distingueva, nell’ambito delle disposizioni costituzionali, tra norme precettive e norme programmatiche— riteneva che per dare forza normativa a molte statuizioni della Costituzione, necessaria l’interpositio legislatoris ( García de Enterría, E. (1985). La Constitución como norma y el Tribunal constitucional. Madrid: Civitas.García de Enterría, 1985: 68; Crisafulli, V. (1993). Lezioni di diritto costituzionale, II. Padova: CEDAM.Crisafulli, 1993). |
[6] |
Si veda, ad esempio, la sentenza n. 1146 del 1988 (Casavola, 1955: 1555; Modugno, 2000: 95; Razzano, 2002; Ventura y Morelli, 2015). |
[7] |
Sulla nozione di giudice a quo: Patroni, 2012; Oddi, 2007: 28; Pinelli, C. (2000). Prospettive di accesso alla giustizia costituzionale e nozione di giudice a quo. Torino: Giappichelli.Pinelli, 2000: 618. |
[8] |
Vedi sentenza n. 194 del 2018 ( Groppi, T. (2019). Interventi di terzi e amici curiae: dalla prospettiva comparata
a uno sguardo sulla giustizia costituzionale in Italia. Disponible en:
|
[9] |
Si veda la sentenza n. 64 del 1961. |
[10] |
Si veda la sentenza n. 9 del 1965. |
[11] |
Vedi supra, paragrafo 1. |
[12] |
Sul principio di ragionevolezza, Moscarini, A. (1996). Ratio legis e valutazioni di ragionevolezza della legge. Torino: Giappichelli.Moscarini, 1996; Paladin, 1997: 899; Scaccia, G. (2000). Gli “strumenti” della ragionevolezza nel giudizio costituzionale. Milano: Giuffrè.Scaccia, 2000; Modugno, F. (2007). La ragionevolezza nella giustizia costituzionale. Napoli: Editoriale Scientifica.Modugno, 2007; Morrone, A. (2000). Il custode della ragionevolezza. Milano: Giuffrè.Morrone, 2000; D’Andrea, L. (2005). Ragionevolezza e legittimazione del sistema. Milano: Giuffrè.D’Andrea, 2005. |
[13] |
Ad esempio la sentenza n. 455 del 1990. |
[14] |
Vedi la sentenza n. 119 del 1981. |
[15] |
Ad esempio, la sentenza n. 50 del 1989. In dottrina, Ruotolo, 2010; Pinardi, 1993; D’Amico, 1993; Politi, F. (1997). Gli effetti nel tempo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale: contributo ad una teoria dell’invalidità costituzionale delle leggi. Padova: CEDAM.Politi, 1997. |
[16] |
Ciò è avvenuto con frequenza in materia di pubblico impiego, di diritto del lavoro e di previdenza sociale, di assistenza e di sanità pubblica. |
[17] |
Così l’art.28 della legge n. 87 del 1953. Sui rapporti con il legislatore, Passaglia, P. (2011). Le Juge constitutionnel et le Législateur. L’expérience italienne. Saarbruken: Editions Universitaires européennes. Passaglia, 2011; Aja, E. (1998). Las tensiones entre el Tribunal Constitucional y el legislador en la Europa actual. Barcelona: Ariel.Aja, 1998. |
[18] |
A titolo di esempio, possiamo richiamare la sentenza n. 198 del 2012 in cui il giudice costituzionale ha confermato la propria giurisprudenza secondo cui il legislatore statale può validamente imporre alle Regioni limiti generali di spesa e fissare criteri di bilancio orientati a ridurre le perdite finanziarie anche nelle materie rientranti nella loro competenza legislativa riservata. Mentre nella sentenza n. 198 del 2008 ha giustificato la capacità delle leggi statali di limitare l’autonomia statutaria delle Regioni al fine di porre un freno alle spese degli organi politici delle Regioni: nel caso di specie, il legislatore avere fissato un limite massimo agli emolumenti dei consiglieri regionali e al numero dei consiglieri e degli assessori. |
[19] |
Una vasta eco ha suscitato la sentenza in cui il giudice costituzionale, in materia di sistema radiotelevisivo, ha dichiarato illegittimo non tanto il monopolio in sé, quanto le modalità con le quali era regolato e esercitato, provvedendo —altresì— ad evidenziare alcuni requisiti che avrebbe dovuto possedere una nuova disciplina della materia (sentenza n. 225 del 1974). A tali criteri il Parlamento si è prontamente adeguato approvando la legge di riforma del sistema n. 103 del 1975. |
[20] |
Vedi, ad esempio, la sentenza n. 243 del 1993. |
[21] |
Si rinvia in proposito a Rolla, G. (2012). L’influenza delle Carte sovranazionali sulla configurazione legale dei diritti e i lineamenti del sistema di giustizia costituzionale. Politica del Diritto, 43 (2-3), 181-205.Rolla, 2012: 168. |
[22] |
Ad esempio, il giudice costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che prevedeva la presenza del pubblico ministero all’interrogatorio dell’imputato senza che fosse assicurata anche presenza al medesimo interrogatorio del difensore dell’imputato (sentenza n. 190 del 1970); così come la posizione dell’imputato condannato che non ha avuto tempestiva ed effettiva conoscenza del provvedimento è stata equiparata a quella prevista dall’art.175 del c.p.p. per il pubblico ministero, le parti e i difensori (sentenza n. 317 del 2009). |
[23] |
Ad esempio, nella sentenza n. 421 del 1995. |
[24] |
Si rinvia a Rolla, G. (2012). La tutela dei diritti fondamentali. Roma: Carocci.Rolla, 2012: 181. |
[25] |
Emblematica è, in proposito, l’ordinanza n. 369 del 2006, in materia di diagnosi preimpianto nelle procedure di procreazione medicalmente assistita, in cui la Corte perviene ad un’ordinanza di inammissibilità usando esclusivamente argomenti giuridico-formali. |
[26] |
Sentenza n. 185 del 1998. |
[27] |
Vedi, ad esempio, la sentenza n. 114 del 1998. |
[28] |
Tra i molti contributi, Casonato, C. y Frosini, T. E. (2006). La fecondazione assistita nel diritto comparato. Torino: Giappichelli.Casonato y Frosini, 2006. |
[29] |
Vedi ad esempio, la sentenza n. 162 del 2014. Inoltre, sempre secondo il giudice costituzionale, un divieto assoluto di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita da parte di coppie fertili portatrici di malattie genetiche trasmissibili lede il diritto costituzionale alla salute e risulta irragionevolmente contradditorio rispetto a quanto già da tempo previsto dalla legge n. 194 del 1978 (disciplina dell’aborto) che consente “l’interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali al fine di perseguire l’obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria” di cui la coppia è portatrice (sentenza n. 94 del 2015). |
[30] |
Vedi sentenza n. 438 del 2008. |
[31] |
Vedi sentenza n. 282 del 2002. |
[32] |
Vedi sentenza n. 8 del 2011. Sempre in coerenza con siffatto indirizzo giurisprudenziale ha ribadito che la legge deve riconoscere “al medico la possibilità di una valutazione sulla base delle più aggiornate e accreditate conoscenze tecnico scientifiche” (sentenza n. 151 del 2009). |
[33] |
Così in ordinanza n. 207 del 2018. |
[34] |
Tra i molti interventi si rinvia a Razzano, 2019. |
[35] |
Così: Merusi, 1990: 30. |
[36] |
Si vedano, le sentenze n. 275 del 2016 e n. 83 del 2019. |
[37] |
Ad esempio, il Tribunale costituzionale federale di Germania ha individuato un test articolato essenzialmente su tre verifiche inerenti al rispetto del principio di effettività, di indispensabilità (verificare l’esistenza di altre misure che possono rendere sufficiente la protezione), di razionalità. Mentre il Tribunale costituzionale del Portogallo è andato oltre sino a precisare che in ossequio al principio di eguaglianza il peso dei sacrifici deve essere ripartito tra le diverse categorie di cittadini in modo equilibrato e motivato, dimostrando di aver esplorato la fattibilità di misure alternative rispetto a quelle prescelte). |
[38] |
Ad esempio, nelle sentenze n. 180 del1982, n. 220 del 1988, n. 73 del 1992, n. 485 del 1992 e n. 347 del 1997. |
[39] |
Sentenza n. 173 del 2016. Vedi: Salazar, C. (2015). Crisi economica e diritti fondamentali, in Spazio costituzionale e crisi economica. Napoli: Jovene.Salazar, 2015: 153; D’Amico y Biondi, 2017; Gambino, 2015; Busata, 2018: 83; Brancati, B. (2018). Tra diritti sociali e crisi economica. Un difficile equilibrio per le Corti costituzionali. Pisa: Pisa University Press. Brancati, 2018; Ciolli, 2012. |
[40] |
Così, ad esempio, Guiglia, 2018. |
[41] |
Ad esempio, sentenza n. 243 del 1993. |
[42] |
Nella sentenza n. 222 del 2013 il giudice costituzionale ha precisato che l’individuazione dei beneficiari di alcune prestazioni sociali può essere circoscritta in ragione della limitatezza delle risorse disponibili, ma tale scelta deve essere operata sempre e comunque in ossequio al principio di ragionevolezza. |
[43] |
Così nella sentenza n. 299 del 2010 ( Biondi dal Monte, F. (2013). Dai diritti sociali alla cittadinanza. Torino: Giappichelli.Biondi, 2013). |
[44] |
Sentenza n. 275 del 2016. |
[45] |
Si veda Ghisalberti, M. (2000). Storia costituzionale d’Italia. Bari: Laterza.Ghisalberti, 2000. Con riferimento al fascismo, Melis, 2018. |
[46] |
In effetti, la giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di Regioni è stata ampiamente studiata e dibattuta dalla dottrina, sino al punto che anche in Italia —come è stato detto in Spagna— si può parlare di diritto regionale giurisprudenziale ( Aragón, M. (1986). ¿Estado jurisdiccional autonómico? Revista vasca de Administración Pública, 16, 7-22.Aragón, 1986: 7). |
[47] |
Si vedano, ad esempio, la sentenza n. 37 del 2004 e la sentenza n. 31 del 2004. |
[48] |
Vedi sentenza n. 255 del 2004. |
[49] |
In merito al problema della definizione giuridica delle materia, si veda: Paladin, 1971: 3; Rolla, G. (1982). La determinazione delle materie di competenza regionale nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Le Regioni, 100-123.Rolla, 1982: 100; D’Atena, 1974; Mangiameli, 1992. |
[50] |
Ad esempio, le sentenze n. 330 del 2011 e n. 109 del 2011, |
[51] |
Ad esempio nella sentenza n. 255 del 2011. |
[52] |
In questa sentenza il giudice costituzionale, a proposito di alcuni decreti legislativi che incidevano su materie di competenza legislativa “mista” ha precisato che “occorre contemperare le ragioni dell’esercizio unitario delle stesse con la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite alle autonomie”; e che tale obiettivo può essere conseguito attraverso una necessaria “intesa” tra i livelli istituzionali da raggiungere in sede di Conferenza unificata tra lo Stato e le Regioni. In proposito, Bifulco, 2017. |
[53] |
Da ciò il consenso per quelle teorie le quali sostenevano che gli interessi perseguiti dagli enti dotati di autonomia, pur possedendo un autonomo riconoscimento, dovevano sempre “subordinarsi a quelli generali che, per estensione, per contenuto e per grado è compito dello Stato di far valere”; ovvero ritenevano che fossero autonomi gli enti che “col provvedere a fini propri, provvedono a fini che sono anche dello Stato.... che lo Stato ritiene di attuare meglio attraverso l’opera di enti”. |
[54] |
Vedi, sentenza n. 66 del 2007. |
[55] |
Anzi, sembra che gli Statuti speciali abbiano inteso “pietrificare” l’individuazione del territorio al momento della loro istituzione D’altra parte, l’identificazione dei Comuni e delle Province appartenenti ad una Regione ad autonomia speciale, in alcuni casi, predeterminata dal dato geografico (come nel caso delle due isole), in altri dal fattore identitario e linguistico (come nel caso delle tre Regioni di confine). |
[56] |
Come nel caso dei tentativi di variazione territoriale ex art. 132 Cost. da parte di alcuni Comuni veneti confinanti con il Trentino-Alto Adige/Südtirol o il Friuli-Venezia Giulia, spinti anche dall’ambizione di accedere alle più favorevoli condizioni di autonomia finanziaria di cui beneficiano le due Regioni speciali. |
[57] |
Si veda la sentenza n. 170 del 2010. |
[58] |
“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. |
[59] |
Sentenza n. 42 del 2014. Per maggiori riferimenti dottrinali sul punto si rinvia a Rolla, G. (2019). Federalismo e Regionalismo in Europa. Alcune riflessioni sulle dinamiche in atto. Diritto Pubblico Comparado ed Europeo, 21, 685-710.Rolla, 2019: 685. |
[60] |
Così in sentenza n. 365 del 2007. |
[61] |
Sentenza n. 118 del 2015. |
[62] |
A questo proposito studi politologici hanno qualificato la grave crisi di rappresentatività delle istituzioni politiche ricorrendo all’espressione di “democrazie senza democrazia” ( Salvadori, M. L. (2009). Democrazie senza democrazia. Bari: La Terza.Salvadori, 2009: 10). |
[63] |
In base alla quale, se prima della data dello svolgimento del referendum, la legge o le singole disposizioni cui il referendum si riferisce sono state abrogate, l’Ufficio centrale per il referendum dichiara che le operazioni relative non hanno più corso. |
[64] |
In tema di leggi tributarie il giudice costituzionale ha precisato che appartengono a tale categorie tutte le norme che determinano un prelievo forzoso da parte dello Stato delle risorse economiche dei contribuenti, finalizzato alla soddisfazione di pubblici bisogni; mentre nel tipo “leggi di bilancio” ha fatto rientrare tutte le norme che incidono sul quadro delle coerenze macroeconomiche e che sono funzionali a conseguire un equilibrio di bilancio. In tema di leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali, la Corte ha ritenuto che dovessero rientrare nel divieto anche le leggi di esecuzione dei trattati internazionali regolarmente ratificati e quelle necessarie per dare attuazione agli obblighi internazionali. |
[65] |
Le linee-guida per valutare l’ammissibilità delle richieste di referendum abrogativo sono state fissate nella fondamentale sentenza n. 16 del 1978 e via via affinate nella successiva giurisprudenza Per ulteriori riferimenti si rinvia ( Rolla, G. (2018). L’organizzazione costituzionale dello Stato. Milano: Giuffrè.Rolla, 2018) |
[66] |
Si veda, ad esempio, sentenza n. 49 del 2005. A proposito dei caratteri che, secondo la giurisprudenza costituzionale, deve possedere il quesito abrogativo: Carnevale, P. (1992). Il referendum abrogativo e i limiti alla sua ammissibilità nella giurisprudenza costituzionale. Padova: CEDAM.Carnevale, 1992: 159; Mangia, A. (1999). Referendum. Padova: CEDAM.Mangia, 1999: 281; Vizioli, 1998: 413; Barcellona, 2017. |
[67] |
Si vedano, ad esempio, le sentenze n. 47 del 1991 e n. n. 92 del 2012. |
[68] |
Da ciò, ad esempio, il divieto di abrogazione totale di una legge necessaria per assicurare la protezione di diritti costituzionalmente garantiti; ovvero di leggi che regolano profili necessari inerenti alla composizione di organi costituzionali o di rilevanza costituzionale. |
[69] |
Si veda la sentenza n. 13 del 2012. Circa i problemi di ammissibilità dei referendum in materia elettorale: Lanchester, 1992; Biancolatte, 2008; Bin, 1999; Rolla, G. (2018). L’organizzazione costituzionale dello Stato. Milano: Giuffrè.Rolla, 2018. |
[70] |
Così in sentenza n. 1 del 2014. |
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